“L’ultimo Samurai” è un film che si ispira alla ribellione dei samurai di Satsuma contro il governo Mejii e racconta la storia dell’eterno conflitto fra tradizione e innovazione. Siamo nel 1877 e l’Imperatore Mutsuhito modifica la struttura politica, sociale ed economica del Giappone, abbandona il sistema feudale per un modello più moderno di tipo occidentale.
I samurai guidati da Katsumoto, controparte fittizia di colui che viene considerato l’ultimo samurai del Giappone, cioè Saigō Tamori, non accettano questa drammatica evoluzione e combattono all’ultimo sangue per resistere alla modernizzazione del Paese.
Nella scena finale, i samurai si lanciano all’attacco delle truppe dell’imperatore a cavallo con le katane sguainate. Dall’altra parte, sopra una collina, i soldati li aspettano armati di fucili, cannoni e mitragliatrici.
Lascio immaginare l’epilogo.
Anzi, no, lo spoilero: è un film del 2003 e se non lo hai ancora visto, pazienza.
Il carismatico Katsumoto spira crivellato di colpi fra le braccia di Tom Cruise e, fissando i fiori di pesco trasportati dal vento, sussurra: “perfetti, sono tutti perfetti”.
L’ultima frase di Katsumoto è chiara: è il momento perfetto per morire.
Siccome non faccio recensioni cinematografiche, ti starai chiedendo perché questo blog parla di un film che ha più di vent’anni. Semplice, perché la condizione dei samurai di Katsumoto, o Saigō Tamori se preferisci, ricorda quella dei copywriter e dei creativi di oggi, che si trovano di fronte a una scelta: accettare l’innovazione o resisterle?
Rifiutare l’innovazione significa passare a miglior vita, nel senso di chiedere il prepensionamento e trasferirsi con tutta la famiglia in Portogallo, aprire il tanto agognato agriturismo, oppure scrivere il best seller rimandato da sempre. Perché l’innovazione iniziata anni fa con il digital, e oggi velocizzata dall’arrivo dell’Intelligenza Artificiale, non si arresterà.
Anzi.
Ma un grave errore sarebbe quello di rinunciare completamente alla tradizione, soprattutto ai valori più importanti che la sostengono. C’è una specie di codice etico che ogni creativo pubblicitario segue, come i samurai seguivano il Bushido, regole non scritte ma rispettate e tramandate da tutti i professionisti della comunicazione, di generazione in generazione.
Una di queste regole è che l’originalità ha un valore. Un enorme valore. Un creativo ancora oggi è giudicato più bravo di altri se è capace di trovare idee nuove, a cui nessuno ha mai pensato. Mentre non sono stari mai visti di buon occhio i creativi che sfogliano gli annual per copiare o, più recentemente, quelli che scrollano Ads of the World per rubare le idee.
Il pericolo di oggi è che ci sono agenzie che copiano in maniera sistematica. In televisione si vedono spot tutti uguali perché vengono presentati sempre con rubamatic. E basta avere qualche anno di esperienza per accorgersi che la maggioranza delle idee ritenute sorprendenti sono brutte copie di campagne uscite cinque o dieci anni fa.
Un’altra regola non scritta è che in un pitch di comunicazione il progetto migliore vince.
Putroppo sta diventando un’eccezione e risulta invece sempre più importante indovinare i gusti del cliente. Tanto che in molti casi i brief di gara si potrebbero eliminare. Perché a cosa servono ancora le strategie o gli insight funzionali al target di riferimento? Non sarebbe più utile investire in una veggente che legga le foglie di tè per indovinare l’Influencer che piace tanto alla moglie dell’amministratore delegato?
L’ultima regola, la più importante, è che la pubblicità deve anche intrattenere.
Perché siamo tutti consapevoli che in fin dei conti sia una grande rottura di palle e, per farci perdonare dell’ingerenza, abbiamo sempre cercato di mettere nelle campagne un pizzico di emozione, di ironia, di intelligenza.
Ma la pubblicità contemporanea sta diventando la cosa più piatta e pervasiva del mondo. È un continuo “guarda qui”, “clicca qui”, “compra qui”, e tutto per colpa di un equivoco, perché molti uomini di marketing hanno scambiato la prepotenza per persuasione.
Se i vecchi samurai spariranno, pazienza, è probabile che abbiano fatto il loro tempo. Spero solo che alcune delle regole del loro codice sopravviveranno. Perché non mi eccita l’idea di creativi armati di fucili e di mitragliatrici ma sempre con qualcuno sopra di loro che gli dice dove andare, quando sparare, cosa pensare.
È il momento di evolversi, prepararsi all’inevitabile evoluzione, e anche piuttosto velocemente. Ma se è vero che non vale la pena passare a miglior vita per una vecchia katana, è altrettanto vero che vale la pena battersi per i nostri valori più profondi.
Quelli sono da difendere con tutte le nostre forze.
Perché quando avremo rinunciato anche a quelli, allora sì che avremo perso definitivamente e potremo essere sostituiti, senza nemmeno accorgercene, così, di Bot.
“L’ultimo Samurai” è un film che si ispira alla ribellione dei samurai di Satsuma contro il governo Mejii e racconta la storia dell’eterno conflitto fra tradizione e innovazione. Siamo nel 1877 e l’Imperatore Mutsuhito modifica la struttura politica, sociale ed economica del Giappone, abbandona il sistema feudale per un modello più moderno di tipo occidentale.
I samurai guidati da Katsumoto, controparte fittizia di colui che viene considerato l’ultimo samurai del Giappone, cioè Saigō Tamori, non accettano questa drammatica evoluzione e combattono all’ultimo sangue per resistere alla modernizzazione del Paese.
Nella scena finale, i samurai si lanciano all’attacco delle truppe dell’imperatore a cavallo con le katane sguainate. Dall’altra parte, sopra una collina, i soldati li aspettano armati di fucili, cannoni e mitragliatrici.
Lascio immaginare l’epilogo.
Anzi, no, lo spoilero: è un film del 2003 e se non lo hai ancora visto, pazienza.
Il carismatico Katsumoto spira crivellato di colpi fra le braccia di Tom Cruise e, fissando i fiori di pesco trasportati dal vento, sussurra: “perfetti, sono tutti perfetti”.
L’ultima frase di Katsumoto è chiara: è il momento perfetto per morire.
Siccome non faccio recensioni cinematografiche, ti starai chiedendo perché questo blog parla di un film che ha più di vent’anni. Semplice, perché la condizione dei samurai di Katsumoto, o Saigō Tamori se preferisci, ricorda quella dei copywriter e dei creativi di oggi, che si trovano di fronte a una scelta: accettare l’innovazione o resisterle?
Rifiutare l’innovazione significa passare a miglior vita, nel senso di chiedere il prepensionamento e trasferirsi con tutta la famiglia in Portogallo, aprire il tanto agognato agriturismo, oppure scrivere il best seller rimandato da sempre. Perché l’innovazione iniziata anni fa con il digital, e oggi velocizzata dall’arrivo dell’Intelligenza Artificiale, non si arresterà.
Anzi.
Ma un grave errore sarebbe quello di rinunciare completamente alla tradizione, soprattutto ai valori più importanti che la sostengono. C’è una specie di codice etico che ogni creativo pubblicitario segue, come i samurai seguivano il Bushido, regole non scritte ma rispettate e tramandate da tutti i professionisti della comunicazione, di generazione in generazione.
Una di queste regole è che l’originalità ha un valore. Un enorme valore. Un creativo ancora oggi è giudicato più bravo di altri se è capace di trovare idee nuove, a cui nessuno ha mai pensato. Mentre non sono stari mai visti di buon occhio i creativi che sfogliano gli annual per copiare o, più recentemente, quelli che scrollano Ads of the World per rubare le idee.
Il pericolo di oggi è che ci sono agenzie che copiano in maniera sistematica. In televisione si vedono spot tutti uguali perché vengono presentati sempre con rubamatic. E basta avere qualche anno di esperienza per accorgersi che la maggioranza delle idee ritenute sorprendenti sono brutte copie di campagne uscite cinque o dieci anni fa.
Un’altra regola non scritta è che in un pitch di comunicazione il progetto migliore vince.
Putroppo sta diventando un’eccezione e risulta invece sempre più importante indovinare i gusti del cliente. Tanto che in molti casi i brief di gara si potrebbero eliminare. Perché a cosa servono ancora le strategie o gli insight funzionali al target di riferimento? Non sarebbe più utile investire in una veggente che legga le foglie di tè per indovinare l’Influencer che piace tanto alla moglie dell’amministratore delegato?
L’ultima regola, la più importante, è che la pubblicità deve anche intrattenere.
Perché siamo tutti consapevoli che in fin dei conti sia una grande rottura di palle e, per farci perdonare dell’ingerenza, abbiamo sempre cercato di mettere nelle campagne un pizzico di emozione, di ironia, di intelligenza.
Ma la pubblicità contemporanea sta diventando la cosa più piatta e pervasiva del mondo. È un continuo “guarda qui”, “clicca qui”, “compra qui”, e tutto per colpa di un equivoco, perché molti uomini di marketing hanno scambiato la prepotenza per persuasione.
Se i vecchi samurai spariranno, pazienza, è probabile che abbiano fatto il loro tempo. Spero solo che alcune delle regole del loro codice sopravviveranno. Perché non mi eccita l’idea di creativi armati di fucili e di mitragliatrici ma sempre con qualcuno sopra di loro che gli dice dove andare, quando sparare, cosa pensare.
È il momento di evolversi, prepararsi all’inevitabile evoluzione, e anche piuttosto velocemente. Ma se è vero che non vale la pena passare a miglior vita per una vecchia katana, è altrettanto vero che vale la pena battersi per i nostri valori più profondi.
Quelli sono da difendere con tutte le nostre forze.
Perché quando avremo rinunciato anche a quelli, allora sì che avremo perso definitivamente e potremo essere sostituiti, senza nemmeno accorgercene, così, di Bot.