Nel post che ho scritto nel 2018, Una volta qui era tutto campagne, ho ripreso un’affermazione di Alberto Contri, presidente dal 1993 al 1997 di Assap (oggi UNA, Aziende della Comunicazione Unite). Eccola.
“Quando ho iniziato a lavorare in pubblicità agli inizi degli anni settanta, le agenzie venivano remunerate con il 15% sull’investimento media. Quando le campagne avevano successo e il brand cresceva, crescevano di conseguenza i profitti dell’agenzia, senza un corrispondente aumento dei costi, il che era semplicemente una manna. Così in quegli anni d’oro le agenzie fecero grandi affari, includendo la consulenza creativa e strategica nel fee complessivo per l’acquisto mezzi. Da un certo punto in poi i clienti hanno cominciato a voler ridurre quella percentuale, la concorrenza è aumentata, e sempre più spesso le agenzie hanno offerto la creatività nel fee dell’acquisto mezzi”.
Questo spiega il motivo per cui ce l’ho tanto con i network pubblicitari, ma anche con i grandi condottieri creativi degli anni ottanta, come ho scritto ultimamente nella mizionewsletter “Non ci sono più le Publistar di una volta…”.
Per avidità le grandi agenzie e i grandi creativi di allora hanno svenduto la creatività e la strategia, ponendo le basi per la distruzione completa del ruolo consulenziale di noi uomini di comunicazione.
Succede in seguito che i reparti media escono dalle agenzie, nascono i Centri Media, e i network vanno in crisi perché devono riuscire a farsi pagare una cosa che prima regalavano. La faccenda si fa ancora più dura con l’avvento del digital e con la crisi economica del 2008. In Italia il mercato pubblicitario si contrae tantissimo e in sette anni, dal 2008 al 2015, perde ben 4 miliardi di euro (40%), passando da 10 miliardi di investimenti a 6 miliardi. Tanto che nel 2017 Martin Sorrell, allora CEO del più grande gruppo di comunicazione al mondo afferma: “2017 was not a pretty year for us”. Il network che guida, WPP, perde in borsa il 10%.
Eppure, nonostante la crisi, quegli anni si contraddistinguono per un grande fermento creativo. A parte una sparuta minoranza di art e copy analogici resistenti al cambiamento, è evidente che il digital porta con sé nuove e illimitate possibilità creative. Anche in conseguenza a questo, intorno al 2004 esplode una vera e propria primavera creativa che prende il nome di unconventional.
L’unconventional è durato poco, davvero poco, soprattutto perché si basava su una grande illusione, e cioè che la creatività pubblicitaria si potesse esprimere anche al di fuori dei canali classici dei media tradizionali. L’unconventional comprendeva discipline poco ortodosse e ormai praticamente estinte come viral, guerrilla, ambient, stunt, flashmob…
Nascono realtà come Ninja Marketing e la nostra ebolaindustries. Ricordo bene quel periodo, perché è stato incredibilmente eccitante dal punto di vista creativo, se è finito presto è perché quella creatività era libera, troppo libera, tanto che non è riuscita a trovare un compromesso con i Centri Media.
Come ebolaindustries ideavamo e producevamo viral video quando ancora non esisteva YouTube, così era nato un accordo con una società inglese che si chiamava GoViral e che si occupava di seeding.
Il seeding consisteva nel piazzare i cosiddetti viral che si volevano spingere su una serie di siti che ospitavano contenuti video. Diventammo rivenditori esclusivi per l’Italia di quel servizio, che non decollò perché facevamo fatica a rivenderlo ai Centri Media e, di conseguenza, ai brand.
Dopo un paio d’anni rinunciammo all’accordo con GoViral. Avevamo capito che il seeding parlava un linguaggio diverso rispetto a quello dei Centri Media. Inoltre, trovavamo assurdo che GoViral non ci desse l’elenco completo dei siti sui quali erano piazzati i contenuti video (loro lo giustificavano dicendo che l’elenco dei siti era il loro patrimonio e per questo lo custodivano gelosamente).
Ai tempi ero convinto che i brand non avrebbero mai accettato di non sapere dove sarebbe stata ospitata la loro pubblicità. Con il senno di poi sbagliavo, ma l’ho capito solo ultimamente, e tu lo capirai se continuerai a leggere questo post. Ignoravo inoltre che per i Centri Media il seeding non era allettante perché non gli garantiva commissioni particolarmente alte, e poi qualcuno stava già pensando a qualcosa del genere che verrà chiamato Programmatic.
Intanto arriva un’altra novità, i social network, e l’esigenza di pubblicare i video sui vari siti finisce: è sufficiente postarli su YouTube oppure su Facebook e promuoverli.
Con il web 2.0 continua però la grande illusione creativa: sembra che tutto sia basato sull’intrattenimento. Per la prima volta le persone possono esprimersi su tutto, anche sui contenuti pubblicitari: possono scrivere commenti, dare like, condividere. L’engagement sembra diventata la cosa più importante di tutte e la brillantezza creativa è una qualità molto ricercata per far sì che i navigatori dedichino attenzione ai brand sui feed. Le parole d’ordine sono Interazione e Integrazione.
Sono i tempi in cui è possibile fare una campagna televisiva che riporta a un minisito, che riporta poi a Facebook e che rimanda infine a YouTube. Sono i tempi in cui i link servono ancora a qualcosa. È la stagione altrettanto breve della Comunicazione Integrata.
Dopodiché, naturalmente, nasce l’esigenza per i social network di monetizzare. All’inizio l’approccio è discreto e in linea con il web 2.0. Nascono le fanpage e i brand spendono milioni di euro per far crescere le loro community dentro le piattaforme social. Di conseguenza nascono i Piani Editoriali.
Ma dopo un po’ a Facebook questo non basta più: gli algoritmi cambiano con il passare delle stagioni, fino ad arrivare al punto che la Reach Organica muore agonizzante e Mark Zuckerberg decide che l’unico modo che i brand hanno per risultare visibili su Facebook sia quello di promuovere tutti i contenuti.
Una grande innovazione come il digital torna nell’alveo dell’antico business pubblicitario, il modello tabellare. Se un brand vuole che i propri contenuti siano visibili può solo pagare. Non importa quanto il contenuto sia virale o ingaggiante, perché tanto viene comprata la viewability, cioè le impressions.
Con la scomparsa della Reach Organica e il rilancio della pubblicità tabellare, i contenuti brandizzati sono diventati sempre più piatti e noiosi, l’Engagement è colato a picco e i feed si sono riempiti di contenuti di cui non ci frega niente. Risultato: fine dell’Interazione e dal web 2.0 si è passati al web 1,99.
Per anni si è parlato del fatto che la rivoluzione del web 2.0 richiedeva di interagire con le persone, quindi i brand avevano la missione di coinvolgerle e interessarle. Il dubbio è: siamo sicuri che questa cosa interessasse davvero ai grandi network di comunicazione? I network si sono sempre dimostrati allergici alle cose che non riescono a controllare, si tratti del parere dei consumatori o della creatività.
Uno dei concetti filosofici più importanti della serie Mad Men è espresso nell’episodio The Monolith, il quarto della settima stagione. È il 1969 e per stare dietro ai tempi, l’agenzia Sterling Cooper & Partners installa un grande computer in uno spazio che prima era dedicato ai creativi. Per la prima volta l’agenzia sente di poter fare a meno dell’apporto geniale ma sregolato di Don Draper. Il messaggio che i partner dell’agenzia mandano a Don con quella scelta è chiaro: la creatività è potente, ma negli affari la genialità fa paura, è più rassicurante il rigore, la certezza, il pragmatismo, anche se poi i risultati sono inferiori.
C’è un dialogo in quella puntata tra Don Draper, direttore creativo dell’agenzia, e il tecnico che sta installando il mega computer.
Don, un poco alticcio, gli dice: “tu parli come un amico, ma non lo sei”.
Il tecnico risponde: “scusa, ma non ti capisco”.
Don: “conosco il tuo nome”.
Il tecnico: “è Floyd, te l’ho detto”.
Don: “no, tu hai molti nomi, so chi sei”.
È una puntata bellissima, con molti riferimenti al cinema di Stanley Kubrick, ma in questo caso il riferimento è solo biblico: i “molti nomi” si riferiscono alla figura del diavolo. Nel dialogo Don dice che quel computer è il Male assoluto che verrà a minare l’unica cosa di Buono che c’è nella pubblicità, cioè la creatività.
Questa puntata è del 2014 ed è incredibile come abbia anticipato il futuro. Come abbia previsto l’era del Data Driven e in parte la grande novità di questi tempi: l’Intelligenza Artificiale. E su una cosa Don aveva ragione: Data Driven e AI parlano da amici della creatività, ma non lo sono affatto. Da quando è partito questo sentimento illuminista per cui ci si illude di misurare tutto grazie al digital, la creatività è diventata agli occhi dei clienti una mera commodity.
Nel frattempo, i social sono diventati ghetti dai quali è sempre più difficile uscire (prova a mettere un link esterno su un post, poi guarda quanta sarà visto il tuo contenuto).
Ma i Centri Media non sono rimasti a guardare: hanno trovato il modo per guadagnare come ai vecchi tempi, anzi, ancora di più, grazie alla pubblicità online e al Programmatic. Non a caso il Media è l’unica categoria del comparto comunicazione che sta continuando a produrre utili per i network, mentre tutte le altre categorie di servizi sono in perdita.
Ho appena finito di leggere un libro di Bob Hoffman che si intitola Inside The Black Box. Ti consiglio la lettura completa del libro, sono solo una settantina di pagine, ma intanto ho tradotto per te i punti più importanti, perché sono utili per capire cos’è oggi la comunicazione online (da qui in poi trovi il contributo di Hoffman scritto in corsivo).
“Secondo le previsioni, nel 2024 si spenderanno più di 650 miliardi di dollari in online advertising, ma una sostanziale percentuale di questi investimenti, probabilmente centinaia di miliardi, andranno completamente sprecati”.
“La convinzione è che con il digital si sa esattamente chi viene raggiunto, quanto costa farlo e come esattamente performano gli annunci. Per molti marketers questa fantasia è ancora una cosa reale, ma l’unica realtà è che la maggior parte di questa pubblicità va completamente sprecata. L’80% dell’online advertising è acquistata con il Programmatic. Il problema è che nella maggioranza dei casi i buyers non sanno cosa stanno comprando, da chi, cosa stanno avendo in cambio e cosa stanno pagando. Pensano di saperlo, ma non lo sanno”.
Non so se sai come funzioni il Programmatic. Provo a spiegartelo: è un sistema automatizzato di compravendita di spazi pubblicitari online che utilizza algoritmi e dati per ottimizzare la distribuzione degli annunci. Ecco i tre tipi di piattaforme che interagiscono fra loro:
1. DSP (Demand-Side Platform): è la piattaforma tecnologica lato domanda. È utilizzata dagli inserzionisti, tramite i Centri Media, per acquistare spazi pubblicitari in modo automatizzato. La DSP consente di gestire offerte e targetizzazione degli annunci in tempo reale.
2. AD Exchange: è una sorta di mercato virtuale dove avviene l’incontro tra domanda e offerta di spazi pubblicitari. Gli annunci provenienti dalle DSP sono messi all’asta e i vincitori vengono visualizzati sugli spazi offerti dalle SSP.
3. SSP (Supply-Side Platform): è la piattaforma tecnologica lato offerta. È utilizzata dagli editori per vendere gli spazi pubblicitari dei loro siti. La SSP ottimizza l’inventario disponibile e massimizza i ricavi permettendo la vendita automatizzata degli spazi pubblicitari agli acquirenti tramite gli AD Exchange.
Questo sistema, messo in piedi per vendere e guadagnare con la pubblicità online, è il motivo principale per cui è diventato di moda il neologismo Martech (contrazione di Marketing Tecnologico). E si potrebbe affermare che sia l’erede del grosso computer odiato da Don Draper nel 1969. A prescindere da questo, sarebbe un sistema tecnologico davvero innovativo, se solo funzionasse.
“Nel 2021 l’ISBA (Incorporated Society British Advertiser) ha rilasciato un report su uno studio condotto da PwC per un periodo lungo due anni che ha intervistato quindici inserzionisti del calibro di Disney, Unilever e Nestlé, cinque DSP, sei SSP e dodici Editori. Il risultato è sorprendente:
metà del budget speso dagli inserzionisti in Programmatic viene trattenuto dall’Adtech Industry prima di raggiungere gli editori.
secondo il Financial Times, il 50% del budget trattenuto di cui sopra, circa 1/3 del budget complessivo, risulta completamente irrintracciabile. A volte addirittura risulta non rintracciabile l’83% dei costi, denaro che finisce nella scatola nera dell’Adtech Industry senza lasciare tracce.
Solo il 12% del budget risulta completamente trasparente e tracciabile.
Il peggio è che, anche se il 50% del budget raggiunge gli editori, non è detto che si possa ottenere il 50% del valore dal proprio investimento in pubblicità”.
“L’esperto di frodi Dr. Augustine Fou afferma: – … il 50% che arriva agli editori può essere oggetto di ulteriore frode se vengono fatte azioni discutibili come fare il refresh della pagina ogni dieci secondi e l’ad slot ogni due secondi, oppure mettendo 10 banner uno sopra l’altro o ancora caricando 1000 banner nel background. Con il Programmatic l’inserzionista è esposto a una frode del 100% se l’editore ha un sito fake con traffico fake”.
“Secondo ANA (Association of National Advertisers) e PwC il 70% del budget speso online nel Programmatic advertising non raggiunge mai gli esseri umani. Su 200 milioni di dollari di investimenti all’anno negli USA in Programmatic, ben 140 milioni spariscono in Ad Fee, Ad Fraud, Impressions non visibili, posizionamenti sconosciuti e non-brand-safe”.
“Cos’è l’Ad Fraud?
È un crimine in cui si usa la tecnologia per sottrarre soldi al business della pubblicità. Gli inserzionisti pensano di acquistare pubblicità ma in realtà non acquistano nulla. L’Ad Fraud è soprattutto nell’online advertising (Display Adv e Online Video Ads) ma ultimamente è diventata un problema anche per la Connected TV (CTV)”.
“Uno studio di DoubleVerify ha dimostrato che nel 2021 la frode negli acquisti di pubblicità in CTV è aumentata del 70%. Principalmente perché gli inserzionisti non comprano gli spazi direttamente da chi quella pubblicità la ospita e poi perché il sistema con cui comprano gli spazi è altamente complesso e a volte incomprensibile”.
Domain Spoofing. La frode si svolge attraendo investimenti pubblicitari su website che sembrano identici a siti conosciuti e di qualità.
Click Injection. Frode tramite l’installazione di malware nei computer, il software malevolo gira per il web cliccando sui siti. E ogni volta che viene prodotto un click qualcuno viene pagato.
Pixel Stuffing. Quando invece di un’inserzione viene inserita sulla pagina web solo un pixel che però viene contato come se fosse un annuncio.
Ad Stacking. Quando le inserzioni vengono impilate una sopra l’altra, a centinaia, così che il navigatore ne veda solo una, ma l’inserzionista paga la sua inserzione anche se non è assolutamente visibile.
Ad Injection. Quando un truffatore sostituisce l’annuncio dell’inserzionista con il suo, facendolo pagare all’inserzionista.
Click Farms. Centinaia di computer che cliccano website 24 ore su 24.
“Il modo principale con cui i truffatori approfittano della vulnerabilità del sistema è creando siti fake, audience fake e click fake. Nel 2020 la compagnia di sicurezza Barracuda Networks ha affermato che la maggior parte del traffico sul web è prodotto da bot malevoli piuttosto che da attività umane. Esistono anche società che promettono la sicurezza contro le frodi, ma il problema è che sono sempre tre passi indietro rispetto ai truffatori”.
“Secondo Advertising Age il 20% del budget online è rubato dai truffatori. Juniper Research stima la frode online in 84 miliardi di dollari nel 2023. Mentre ANA (Association of National Advertisers) stima che la frode online negli USA nel 2023 sia stata fra gli 81 e i 120 miliardi di dollari. The World of Federation Advertisers ha dichiarato che entro il 2025 l’Ad Fraud sarà la seconda fonte di income per i criminali dopo il traffico di droga”.
“Gli inserzionisti dovrebbero essere altamente incentivati per porre un freno a questa cosa. Invece no. Perché? Perché per anni i Chief Marketing Officers hanno venduto i vantaggi della pubblicità online ai loro CEO. Non è facile spiegare che in realtà sono stati sprecati un mucchio di soldi”.
“Gli inserzionisti amano ricevere numeri che crescano ogni mese, a prescindere dal loro valore reale. Lo stesso vale per i media planner e i buyer. Nessuno in realtà si domanda della reale efficacia di quei numeri, perché amano mostrare quei numeri ai loro responsabili: x followers in più, y reach in più, z gente in più che ha visto i propri contenuti”.
“Le holding dell’adv hanno investito troppo nel business Ad Tech, quindi non possono tornare indietro. Anche perché secondo Statista, oggi il 64% delle revenue delle agenzie proviene dal Digital Advertising. La maggior parte delle agenzie oggi sono pagate a volume, non a qualità. Prendono le stesse commissioni e fee sia che comprino audience fake o reali, sia che raggiungano website reali o fake. I network non sono in combutta con i truffatori, ma non hanno nemmeno interesse a proteggere i loro clienti”.
“Un caso famoso ha coinvolto Chase Bank, che in passato investiva ogni mese su 400.000 website. Naturalmente è impossibile controllare e analizzare l’attività e i click di 400.000 website. Però a un certo punto hanno fatto un test e hanno ridotto il numero di siti a 5.000 (una riduzione di quasi il 99%) e, sorpresa! Non hanno notato nessuna differenza. La maggior parte delle inserzioni comprate con il Programmatic sono risultate inutili.
“Oggi l’online advertising costituisce i 2/3 di tutta la spesa pubblicitaria. Nessuno dei grandi player dell’advertising ha interesse ad andare troppo a fondo alla questione. Stessa cosa vale per i marketers, il loro interesse non corrisponde sempre con l’interesse dei brand che rappresentano”.
“Quello del Direttore Marketing è un lavoro instabile. I report stimano che la vita media di un CMO in azienda è sui 24 mesi. E secondo l’Harvard Business Review l’80% dei CEO dicono che non si fidano o non sono impressionati dai loro CMO. L’interesse di un Direttore Marketing è apparire efficiente: raggiungere la maggior parte di audience spendendo meno possibile. Teoricamente la stessa cosa che servirebbe al brand. Peccato che le metriche per misurare il successo dell’online advertising (CPM’s, click eccetera) sono poco attendibili”.
“Sprecare milioni di dollari in online advertising è la cosa peggiore per un brand, ma non è detto che sia la peggiore anche per un direttore marketing. Proprio perché la priorità di un direttore marketing è conservare il proprio posto. E può farlo raccontando al suo CEO: guarda quante persone ho raggiunto, guarda quanti click ho fatto, guarda che CPM!”.
“La tecnologia dell’online advertising promette da anni di fornire i dati precisi sul target, su quanto costa raggiungerli e sui risultati. Vent’anni dopo sappiamo che non è così. Se compri una pagina sul Corriere apri il quotidiano e la trovi. Se compri uno spot in prima serata su Canale 5 ti sintonizzi e lo vedi. Ma se compri spazi su 40.000 siti come fai?”
Secondo Bob Hoffman per anni Forbes ha tenuto un dominio parallelo (www3.forbes.com) in cui ha convogliato inserzioni. Perché?
“Nel sito principale c’erano dalle 3 alle 10 inserzioni in un singolo articolo, mentre in quello parallelo gli annunci potevano arrivare a 200. Non ci vuole un genio per capire la differenza in efficacia. Il Wall Street Journal ha riportato gli inserzionisti e non è che fossero degli sprovveduti: Microsoft, Disney, Ford, Johnson&Johnson, Mercedes Benz, oltre a tutte le maggiori holding di pubblicità (WPP, Omnicom, Publicis, Interpublic, Havas e Dentsu)”.
Ricordi quello che ti raccontavo sul seeding? Al contrario di quello che pensavo all’epoca, vent’anni dopo le aziende stanno facendo esattamente quello che escludevo avrebbero fatto: comprano spazi non si sa dove. Solo che lo stanno facendo con il Programmatic.
Quello che segue è il Programmatic Poop Funnels secondo Bob Hoffman. “Per ogni dollaro speso, 7 centesimi vengono trattenuti dai network e dai Centri Media come fee, le piattaforme tecnologiche trattengono poi altri 27 centesimi (sono i fee delle DSP, SSP e AD Exchange), 15 centesimi spariscono nell’Unknow Delta (nessuno sa che fine facciano dato che non sono tracciabili). Dopodiché il 30% degli annunci che si acquistano non è visibile, mentre il 20% è pubblicità fraudolenta. Alla fine, solo il 9% della Display Ads sarà visto da una persona reale”.
Ciò che non sai ancora è per quanto tempo una persona vedrà quel 9%. Un secondo. Sì, hai capito bene: un solo secondo. Perché lo IAB ha ratificato uno standard surreale: affinché un annuncio possa essere addebitato a un inserzionista, almeno il 50% dei pixel che lo compongono devono essere visibili per un secondo. Due secondi solo nel caso di un video.
Non finisce qui.
“Secondo una ricerca di Nielsen il 46% dei consumatori è più portata a cambiare brand rispetto a 5 anni prima e solo l’8% di loro è fortemente fedele al brand che ha scelto. Conseguenza dell’online advertising? Probabile, perché la stessa survey dimostra che gli otto tipi di pubblicità che i consumatori trovano più fastidiose sono tutti di pubblicità online”.
Non serve spiegarne le motivazioni. Tutti noi sappiamo per esperienza personale che è così. E allora perché si insiste tanto con banner orribili e call to action asfissianti?
Marco Carnevale nel suo libro appena uscito,La réclame dell’Apocalisse, riporta altre statistiche molto interessanti.
“Nel 2018 circa il 47% di tutti gli internet users mondiali utilizzava AdBlock, cioè dispositivi per filtrare o bloccare del tutto le inserzioni pubblicitarie online. Secondo uno studio di Internet Worldstats le motivazioni principali sono due: gli annunci sono troppi” (48%) e risultano annoying and irrelevant (47%”)”.
“E Apple, Con iOs 14.5, ha agevolato l’esclusione dei cookies dai propri device, quelli che consentono il tracciamento e grazie ai quali Google e Facebook basavano la maggior parte dei loro introiti. A trenta giorni dal lancio di iOs 14,5, nel maggio del 2021, il 95% degli utilizzatori americani di iPhone e iPad aveva già scelto la funzione opt out”.
Sì, perché Il problema della misurazione sull’online advertising non si riduce al Programmatic. Google e Meta danno risultati della pubblicità sulle loro piattaforme solo con tool rispettivamente di Google e Meta. Ti sembra normale?
Chiara Ferragni, la più grande Influencer italiana, non dava mai i risultati dei suoi post sponsorizzati. Come scrive Selvaggia Lucarelli nel suo ultimo libro, Il vaso di pandoro, la formula ricorrente nei suoi contratti era la seguente:
“Chiara Ferragni deciderà la creatività dei contenuti e sceglierà i prodotti da promuovere a partire da una prrecedente selezione del cliente. I contenuti non verranno inviati prima in approvazione e non saranno forniti gli insight degli stessi a fine campagna”
Sorge spontanea una domanda: possibile che nessuno dei grandi inserzionisti si sia accorto di quanto siano discutibili i risultati dell’online advertising? Te lo dico io, no, non è possibile.
A conferma di questo crescente scetticismo da parte delle aziende nei confronti della pubblicità online, e di conseguenza nei propri responsabili (ricordi la survey dell’Harvard Business Review?) sempre più CEO di aziende stanno affiancando consulenti esterni ai propri Direttori Marketing. È il modo con cui le Consultancies stanno lentamente scacciando i network dalle stanze dei bottoni dei brand.
“A fronte degli arricchimenti leggendari di poche gigantesche imprese globali a vocazione monopolistica, il trionfo dell’adtech ha danneggiato in profondità l’intera filiera dell’industria pubblicitaria mondiale, spingendo le aziende a disperdere ingentissime risorse nello sterile inseguimento di score insignificanti e spesso del tutto inattendibili, trasformando le agenzie in catene di montaggio a ciclo continuo di contenuti di infimo livello, smantellando una cultura professionale affinata nell’arco di oltre un secolo in favore della meccanica applicazione di formule preconfezionate (nonché volatili come i trend giovanilistici) e – dulcis in fundo – svilendo la sottile arte di comunicare in una forma ottusa e ossessiva di stalking ai danni del pubblico; un pedinamento talmente pervasivo e invasivo nelle modalità da provocare il più diffuso ed esplicito rigetto della pubblicità mai registrato nella storia.
Condivido in pieno la sua analisi, ma sono più ottimista di lui. La creatività sta subendo il più grande attacco di sempre, perché Data Driven e AI sono due nemici temibili, ma è anche vero che senza creatività la pubblicità è solo una grande rottura di coglioni.
Sono convinto che prima o poi i brand torneranno a comprenderlo.
Per noi creativi si tratta solo di resistere. Bisogna superare indenni questo ottuso trend illuminista, questa fastidiosa gentrificazione del media, nell’attesa che le aziende e le agenzie recuperino il senno e capiscano che per parlare alle persone, per farle emozionare anziché annoiarle, non si può fare a meno della bellezza, dell’ironia e dell’intelligenza.
Nel frattempo, un buon modo per resistere è restare aggiornati. Puoi farlo esplorando e imparando a usare tutti i nuovi tool dell’Intelligenza Artificiale, ma anche leggendo Inside he Black Box di Bob Hoffman o, soprattutto, l’imperdibile pamphlet di Marco Carnevale, La réclame dell’Apocalisse edito da Prospero Editore nella prestigiosa collana Bill.
Grazie mille per tutte queste informazioni che hai condiviso.
Posso confermare che alcune cose che hai affermato le ho provate sulla mia “pelle”.
Purtroppo il passaggio attraverso questi sistemi risulta ancora indispensabile per venire a contatto con clienti nuovi quando si ha un sito generalista come il mio.
Però bisogna dosare gli investimenti e puntare a qualcosa di più efficace puntando il focus sui quei pochi clienti catturati attraverso i clic.
Altrimenti se ci si basa esclusivamente sulle inserzioni senza altre strategie non si va da nessuna parte.
Un articolo scritto in maniera illuminante.
Lo condivido con i miei colleghi.
Complimenti e grazie ancora
Nel post che ho scritto nel 2018, Una volta qui era tutto campagne, ho ripreso un’affermazione di Alberto Contri, presidente dal 1993 al 1997 di Assap (oggi UNA, Aziende della Comunicazione Unite). Eccola.
“Quando ho iniziato a lavorare in pubblicità agli inizi degli anni settanta, le agenzie venivano remunerate con il 15% sull’investimento media. Quando le campagne avevano successo e il brand cresceva, crescevano di conseguenza i profitti dell’agenzia, senza un corrispondente aumento dei costi, il che era semplicemente una manna. Così in quegli anni d’oro le agenzie fecero grandi affari, includendo la consulenza creativa e strategica nel fee complessivo per l’acquisto mezzi. Da un certo punto in poi i clienti hanno cominciato a voler ridurre quella percentuale, la concorrenza è aumentata, e sempre più spesso le agenzie hanno offerto la creatività nel fee dell’acquisto mezzi”.
Questo spiega il motivo per cui ce l’ho tanto con i network pubblicitari, ma anche con i grandi condottieri creativi degli anni ottanta, come ho scritto ultimamente nella mizionewsletter “Non ci sono più le Publistar di una volta…”.
Per avidità le grandi agenzie e i grandi creativi di allora hanno svenduto la creatività e la strategia, ponendo le basi per la distruzione completa del ruolo consulenziale di noi uomini di comunicazione.
Succede in seguito che i reparti media escono dalle agenzie, nascono i Centri Media, e i network vanno in crisi perché devono riuscire a farsi pagare una cosa che prima regalavano. La faccenda si fa ancora più dura con l’avvento del digital e con la crisi economica del 2008. In Italia il mercato pubblicitario si contrae tantissimo e in sette anni, dal 2008 al 2015, perde ben 4 miliardi di euro (40%), passando da 10 miliardi di investimenti a 6 miliardi. Tanto che nel 2017 Martin Sorrell, allora CEO del più grande gruppo di comunicazione al mondo afferma: “2017 was not a pretty year for us”. Il network che guida, WPP, perde in borsa il 10%.
Eppure, nonostante la crisi, quegli anni si contraddistinguono per un grande fermento creativo. A parte una sparuta minoranza di art e copy analogici resistenti al cambiamento, è evidente che il digital porta con sé nuove e illimitate possibilità creative. Anche in conseguenza a questo, intorno al 2004 esplode una vera e propria primavera creativa che prende il nome di unconventional.
L’unconventional è durato poco, davvero poco, soprattutto perché si basava su una grande illusione, e cioè che la creatività pubblicitaria si potesse esprimere anche al di fuori dei canali classici dei media tradizionali. L’unconventional comprendeva discipline poco ortodosse e ormai praticamente estinte come viral, guerrilla, ambient, stunt, flashmob…
Nascono realtà come Ninja Marketing e la nostra ebolaindustries. Ricordo bene quel periodo, perché è stato incredibilmente eccitante dal punto di vista creativo, se è finito presto è perché quella creatività era libera, troppo libera, tanto che non è riuscita a trovare un compromesso con i Centri Media.
Come ebolaindustries ideavamo e producevamo viral video quando ancora non esisteva YouTube, così era nato un accordo con una società inglese che si chiamava GoViral e che si occupava di seeding.
Il seeding consisteva nel piazzare i cosiddetti viral che si volevano spingere su una serie di siti che ospitavano contenuti video. Diventammo rivenditori esclusivi per l’Italia di quel servizio, che non decollò perché facevamo fatica a rivenderlo ai Centri Media e, di conseguenza, ai brand.
Dopo un paio d’anni rinunciammo all’accordo con GoViral. Avevamo capito che il seeding parlava un linguaggio diverso rispetto a quello dei Centri Media. Inoltre, trovavamo assurdo che GoViral non ci desse l’elenco completo dei siti sui quali erano piazzati i contenuti video (loro lo giustificavano dicendo che l’elenco dei siti era il loro patrimonio e per questo lo custodivano gelosamente).
Ai tempi ero convinto che i brand non avrebbero mai accettato di non sapere dove sarebbe stata ospitata la loro pubblicità. Con il senno di poi sbagliavo, ma l’ho capito solo ultimamente, e tu lo capirai se continuerai a leggere questo post. Ignoravo inoltre che per i Centri Media il seeding non era allettante perché non gli garantiva commissioni particolarmente alte, e poi qualcuno stava già pensando a qualcosa del genere che verrà chiamato Programmatic.
Intanto arriva un’altra novità, i social network, e l’esigenza di pubblicare i video sui vari siti finisce: è sufficiente postarli su YouTube oppure su Facebook e promuoverli.
Con il web 2.0 continua però la grande illusione creativa: sembra che tutto sia basato sull’intrattenimento. Per la prima volta le persone possono esprimersi su tutto, anche sui contenuti pubblicitari: possono scrivere commenti, dare like, condividere. L’engagement sembra diventata la cosa più importante di tutte e la brillantezza creativa è una qualità molto ricercata per far sì che i navigatori dedichino attenzione ai brand sui feed. Le parole d’ordine sono Interazione e Integrazione.
Sono i tempi in cui è possibile fare una campagna televisiva che riporta a un minisito, che riporta poi a Facebook e che rimanda infine a YouTube. Sono i tempi in cui i link servono ancora a qualcosa. È la stagione altrettanto breve della Comunicazione Integrata.
Dopodiché, naturalmente, nasce l’esigenza per i social network di monetizzare. All’inizio l’approccio è discreto e in linea con il web 2.0. Nascono le fanpage e i brand spendono milioni di euro per far crescere le loro community dentro le piattaforme social. Di conseguenza nascono i Piani Editoriali.
Ma dopo un po’ a Facebook questo non basta più: gli algoritmi cambiano con il passare delle stagioni, fino ad arrivare al punto che la Reach Organica muore agonizzante e Mark Zuckerberg decide che l’unico modo che i brand hanno per risultare visibili su Facebook sia quello di promuovere tutti i contenuti.
Una grande innovazione come il digital torna nell’alveo dell’antico business pubblicitario, il modello tabellare. Se un brand vuole che i propri contenuti siano visibili può solo pagare. Non importa quanto il contenuto sia virale o ingaggiante, perché tanto viene comprata la viewability, cioè le impressions.
Con la scomparsa della Reach Organica e il rilancio della pubblicità tabellare, i contenuti brandizzati sono diventati sempre più piatti e noiosi, l’Engagement è colato a picco e i feed si sono riempiti di contenuti di cui non ci frega niente. Risultato: fine dell’Interazione e dal web 2.0 si è passati al web 1,99.
Per anni si è parlato del fatto che la rivoluzione del web 2.0 richiedeva di interagire con le persone, quindi i brand avevano la missione di coinvolgerle e interessarle. Il dubbio è: siamo sicuri che questa cosa interessasse davvero ai grandi network di comunicazione? I network si sono sempre dimostrati allergici alle cose che non riescono a controllare, si tratti del parere dei consumatori o della creatività.
Uno dei concetti filosofici più importanti della serie Mad Men è espresso nell’episodio The Monolith, il quarto della settima stagione. È il 1969 e per stare dietro ai tempi, l’agenzia Sterling Cooper & Partners installa un grande computer in uno spazio che prima era dedicato ai creativi. Per la prima volta l’agenzia sente di poter fare a meno dell’apporto geniale ma sregolato di Don Draper. Il messaggio che i partner dell’agenzia mandano a Don con quella scelta è chiaro: la creatività è potente, ma negli affari la genialità fa paura, è più rassicurante il rigore, la certezza, il pragmatismo, anche se poi i risultati sono inferiori.
C’è un dialogo in quella puntata tra Don Draper, direttore creativo dell’agenzia, e il tecnico che sta installando il mega computer.
Don, un poco alticcio, gli dice: “tu parli come un amico, ma non lo sei”.
Il tecnico risponde: “scusa, ma non ti capisco”.
Don: “conosco il tuo nome”.
Il tecnico: “è Floyd, te l’ho detto”.
Don: “no, tu hai molti nomi, so chi sei”.
È una puntata bellissima, con molti riferimenti al cinema di Stanley Kubrick, ma in questo caso il riferimento è solo biblico: i “molti nomi” si riferiscono alla figura del diavolo. Nel dialogo Don dice che quel computer è il Male assoluto che verrà a minare l’unica cosa di Buono che c’è nella pubblicità, cioè la creatività.
Questa puntata è del 2014 ed è incredibile come abbia anticipato il futuro. Come abbia previsto l’era del Data Driven e in parte la grande novità di questi tempi: l’Intelligenza Artificiale. E su una cosa Don aveva ragione: Data Driven e AI parlano da amici della creatività, ma non lo sono affatto. Da quando è partito questo sentimento illuminista per cui ci si illude di misurare tutto grazie al digital, la creatività è diventata agli occhi dei clienti una mera commodity.
Nel frattempo, i social sono diventati ghetti dai quali è sempre più difficile uscire (prova a mettere un link esterno su un post, poi guarda quanta sarà visto il tuo contenuto).
Ma i Centri Media non sono rimasti a guardare: hanno trovato il modo per guadagnare come ai vecchi tempi, anzi, ancora di più, grazie alla pubblicità online e al Programmatic. Non a caso il Media è l’unica categoria del comparto comunicazione che sta continuando a produrre utili per i network, mentre tutte le altre categorie di servizi sono in perdita.
Ho appena finito di leggere un libro di Bob Hoffman che si intitola Inside The Black Box. Ti consiglio la lettura completa del libro, sono solo una settantina di pagine, ma intanto ho tradotto per te i punti più importanti, perché sono utili per capire cos’è oggi la comunicazione online (da qui in poi trovi il contributo di Hoffman scritto in corsivo).
“Secondo le previsioni, nel 2024 si spenderanno più di 650 miliardi di dollari in online advertising, ma una sostanziale percentuale di questi investimenti, probabilmente centinaia di miliardi, andranno completamente sprecati”.
“La convinzione è che con il digital si sa esattamente chi viene raggiunto, quanto costa farlo e come esattamente performano gli annunci. Per molti marketers questa fantasia è ancora una cosa reale, ma l’unica realtà è che la maggior parte di questa pubblicità va completamente sprecata. L’80% dell’online advertising è acquistata con il Programmatic. Il problema è che nella maggioranza dei casi i buyers non sanno cosa stanno comprando, da chi, cosa stanno avendo in cambio e cosa stanno pagando. Pensano di saperlo, ma non lo sanno”.
Non so se sai come funzioni il Programmatic. Provo a spiegartelo: è un sistema automatizzato di compravendita di spazi pubblicitari online che utilizza algoritmi e dati per ottimizzare la distribuzione degli annunci. Ecco i tre tipi di piattaforme che interagiscono fra loro:
Questo sistema, messo in piedi per vendere e guadagnare con la pubblicità online, è il motivo principale per cui è diventato di moda il neologismo Martech (contrazione di Marketing Tecnologico). E si potrebbe affermare che sia l’erede del grosso computer odiato da Don Draper nel 1969. A prescindere da questo, sarebbe un sistema tecnologico davvero innovativo, se solo funzionasse.
Riprendo sempre dal libro Inside The Black Box di Bob Hoffman.
“Nel 2021 l’ISBA (Incorporated Society British Advertiser) ha rilasciato un report su uno studio condotto da PwC per un periodo lungo due anni che ha intervistato quindici inserzionisti del calibro di Disney, Unilever e Nestlé, cinque DSP, sei SSP e dodici Editori. Il risultato è sorprendente:
Il peggio è che, anche se il 50% del budget raggiunge gli editori, non è detto che si possa ottenere il 50% del valore dal proprio investimento in pubblicità”.
“L’esperto di frodi Dr. Augustine Fou afferma: – … il 50% che arriva agli editori può essere oggetto di ulteriore frode se vengono fatte azioni discutibili come fare il refresh della pagina ogni dieci secondi e l’ad slot ogni due secondi, oppure mettendo 10 banner uno sopra l’altro o ancora caricando 1000 banner nel background. Con il Programmatic l’inserzionista è esposto a una frode del 100% se l’editore ha un sito fake con traffico fake”.
“Secondo ANA (Association of National Advertisers) e PwC il 70% del budget speso online nel Programmatic advertising non raggiunge mai gli esseri umani. Su 200 milioni di dollari di investimenti all’anno negli USA in Programmatic, ben 140 milioni spariscono in Ad Fee, Ad Fraud, Impressions non visibili, posizionamenti sconosciuti e non-brand-safe”.
“Cos’è l’Ad Fraud?
È un crimine in cui si usa la tecnologia per sottrarre soldi al business della pubblicità. Gli inserzionisti pensano di acquistare pubblicità ma in realtà non acquistano nulla. L’Ad Fraud è soprattutto nell’online advertising (Display Adv e Online Video Ads) ma ultimamente è diventata un problema anche per la Connected TV (CTV)”.
“Uno studio di DoubleVerify ha dimostrato che nel 2021 la frode negli acquisti di pubblicità in CTV è aumentata del 70%. Principalmente perché gli inserzionisti non comprano gli spazi direttamente da chi quella pubblicità la ospita e poi perché il sistema con cui comprano gli spazi è altamente complesso e a volte incomprensibile”.
Forse non è un caso, aggiungo io, se Netflix ha appena deciso di sviluppare la propria piattaforma Ad Tech per vendere i suoi spazi.
Ecco qualche esempio di AD Fraud
“Il modo principale con cui i truffatori approfittano della vulnerabilità del sistema è creando siti fake, audience fake e click fake. Nel 2020 la compagnia di sicurezza Barracuda Networks ha affermato che la maggior parte del traffico sul web è prodotto da bot malevoli piuttosto che da attività umane. Esistono anche società che promettono la sicurezza contro le frodi, ma il problema è che sono sempre tre passi indietro rispetto ai truffatori”.
“Secondo Advertising Age il 20% del budget online è rubato dai truffatori. Juniper Research stima la frode online in 84 miliardi di dollari nel 2023. Mentre ANA (Association of National Advertisers) stima che la frode online negli USA nel 2023 sia stata fra gli 81 e i 120 miliardi di dollari. The World of Federation Advertisers ha dichiarato che entro il 2025 l’Ad Fraud sarà la seconda fonte di income per i criminali dopo il traffico di droga”.
“Gli inserzionisti dovrebbero essere altamente incentivati per porre un freno a questa cosa. Invece no. Perché? Perché per anni i Chief Marketing Officers hanno venduto i vantaggi della pubblicità online ai loro CEO. Non è facile spiegare che in realtà sono stati sprecati un mucchio di soldi”.
“Gli inserzionisti amano ricevere numeri che crescano ogni mese, a prescindere dal loro valore reale. Lo stesso vale per i media planner e i buyer. Nessuno in realtà si domanda della reale efficacia di quei numeri, perché amano mostrare quei numeri ai loro responsabili: x followers in più, y reach in più, z gente in più che ha visto i propri contenuti”.
“Le holding dell’adv hanno investito troppo nel business Ad Tech, quindi non possono tornare indietro. Anche perché secondo Statista, oggi il 64% delle revenue delle agenzie proviene dal Digital Advertising. La maggior parte delle agenzie oggi sono pagate a volume, non a qualità. Prendono le stesse commissioni e fee sia che comprino audience fake o reali, sia che raggiungano website reali o fake. I network non sono in combutta con i truffatori, ma non hanno nemmeno interesse a proteggere i loro clienti”.
“Un caso famoso ha coinvolto Chase Bank, che in passato investiva ogni mese su 400.000 website. Naturalmente è impossibile controllare e analizzare l’attività e i click di 400.000 website. Però a un certo punto hanno fatto un test e hanno ridotto il numero di siti a 5.000 (una riduzione di quasi il 99%) e, sorpresa! Non hanno notato nessuna differenza. La maggior parte delle inserzioni comprate con il Programmatic sono risultate inutili.
“Oggi l’online advertising costituisce i 2/3 di tutta la spesa pubblicitaria. Nessuno dei grandi player dell’advertising ha interesse ad andare troppo a fondo alla questione. Stessa cosa vale per i marketers, il loro interesse non corrisponde sempre con l’interesse dei brand che rappresentano”.
“Quello del Direttore Marketing è un lavoro instabile. I report stimano che la vita media di un CMO in azienda è sui 24 mesi. E secondo l’Harvard Business Review l’80% dei CEO dicono che non si fidano o non sono impressionati dai loro CMO. L’interesse di un Direttore Marketing è apparire efficiente: raggiungere la maggior parte di audience spendendo meno possibile. Teoricamente la stessa cosa che servirebbe al brand. Peccato che le metriche per misurare il successo dell’online advertising (CPM’s, click eccetera) sono poco attendibili”.
“Sprecare milioni di dollari in online advertising è la cosa peggiore per un brand, ma non è detto che sia la peggiore anche per un direttore marketing. Proprio perché la priorità di un direttore marketing è conservare il proprio posto. E può farlo raccontando al suo CEO: guarda quante persone ho raggiunto, guarda quanti click ho fatto, guarda che CPM!”.
“La tecnologia dell’online advertising promette da anni di fornire i dati precisi sul target, su quanto costa raggiungerli e sui risultati. Vent’anni dopo sappiamo che non è così. Se compri una pagina sul Corriere apri il quotidiano e la trovi. Se compri uno spot in prima serata su Canale 5 ti sintonizzi e lo vedi. Ma se compri spazi su 40.000 siti come fai?”
Secondo Bob Hoffman per anni Forbes ha tenuto un dominio parallelo (www3.forbes.com) in cui ha convogliato inserzioni. Perché?
“Nel sito principale c’erano dalle 3 alle 10 inserzioni in un singolo articolo, mentre in quello parallelo gli annunci potevano arrivare a 200. Non ci vuole un genio per capire la differenza in efficacia. Il Wall Street Journal ha riportato gli inserzionisti e non è che fossero degli sprovveduti: Microsoft, Disney, Ford, Johnson&Johnson, Mercedes Benz, oltre a tutte le maggiori holding di pubblicità (WPP, Omnicom, Publicis, Interpublic, Havas e Dentsu)”.
Ricordi quello che ti raccontavo sul seeding? Al contrario di quello che pensavo all’epoca, vent’anni dopo le aziende stanno facendo esattamente quello che escludevo avrebbero fatto: comprano spazi non si sa dove. Solo che lo stanno facendo con il Programmatic.
Quello che segue è il Programmatic Poop Funnels secondo Bob Hoffman. “Per ogni dollaro speso, 7 centesimi vengono trattenuti dai network e dai Centri Media come fee, le piattaforme tecnologiche trattengono poi altri 27 centesimi (sono i fee delle DSP, SSP e AD Exchange), 15 centesimi spariscono nell’Unknow Delta (nessuno sa che fine facciano dato che non sono tracciabili). Dopodiché il 30% degli annunci che si acquistano non è visibile, mentre il 20% è pubblicità fraudolenta. Alla fine, solo il 9% della Display Ads sarà visto da una persona reale”.
Ciò che non sai ancora è per quanto tempo una persona vedrà quel 9%. Un secondo. Sì, hai capito bene: un solo secondo. Perché lo IAB ha ratificato uno standard surreale: affinché un annuncio possa essere addebitato a un inserzionista, almeno il 50% dei pixel che lo compongono devono essere visibili per un secondo. Due secondi solo nel caso di un video.
Non finisce qui.
“Secondo una ricerca di Nielsen il 46% dei consumatori è più portata a cambiare brand rispetto a 5 anni prima e solo l’8% di loro è fortemente fedele al brand che ha scelto. Conseguenza dell’online advertising? Probabile, perché la stessa survey dimostra che gli otto tipi di pubblicità che i consumatori trovano più fastidiose sono tutti di pubblicità online”.
Non serve spiegarne le motivazioni. Tutti noi sappiamo per esperienza personale che è così. E allora perché si insiste tanto con banner orribili e call to action asfissianti?
Marco Carnevale nel suo libro appena uscito, La réclame dell’Apocalisse, riporta altre statistiche molto interessanti.
“Nel 2018 circa il 47% di tutti gli internet users mondiali utilizzava AdBlock, cioè dispositivi per filtrare o bloccare del tutto le inserzioni pubblicitarie online. Secondo uno studio di Internet Worldstats le motivazioni principali sono due: gli annunci sono troppi” (48%) e risultano annoying and irrelevant (47%”)”.
“E Apple, Con iOs 14.5, ha agevolato l’esclusione dei cookies dai propri device, quelli che consentono il tracciamento e grazie ai quali Google e Facebook basavano la maggior parte dei loro introiti. A trenta giorni dal lancio di iOs 14,5, nel maggio del 2021, il 95% degli utilizzatori americani di iPhone e iPad aveva già scelto la funzione opt out”.
Sì, perché Il problema della misurazione sull’online advertising non si riduce al Programmatic. Google e Meta danno risultati della pubblicità sulle loro piattaforme solo con tool rispettivamente di Google e Meta. Ti sembra normale?
Chiara Ferragni, la più grande Influencer italiana, non dava mai i risultati dei suoi post sponsorizzati. Come scrive Selvaggia Lucarelli nel suo ultimo libro, Il vaso di pandoro, la formula ricorrente nei suoi contratti era la seguente:
“Chiara Ferragni deciderà la creatività dei contenuti e sceglierà i prodotti da promuovere a partire da una prrecedente selezione del cliente. I contenuti non verranno inviati prima in approvazione e non saranno forniti gli insight degli stessi a fine campagna”
Sorge spontanea una domanda: possibile che nessuno dei grandi inserzionisti si sia accorto di quanto siano discutibili i risultati dell’online advertising? Te lo dico io, no, non è possibile.
Come ho scritto nel post Una volta qui era tutte campagne, nel 2018 Keith Weed, CMO di Unilever, ha individuato nelle 3 V il più grande problema del digital marketing: Viewability, Verification, Value.
Marc Pritchard, CMO di P&G, si è spinto ancora più in là: nel 2017 ha dirottato 200 milioni di dollari di investimenti media dal digital alla TV, riducendo gli sprechi al 20% e ottenendo un 10% di Reach in più.
A conferma di questo crescente scetticismo da parte delle aziende nei confronti della pubblicità online, e di conseguenza nei propri responsabili (ricordi la survey dell’Harvard Business Review?) sempre più CEO di aziende stanno affiancando consulenti esterni ai propri Direttori Marketing. È il modo con cui le Consultancies stanno lentamente scacciando i network dalle stanze dei bottoni dei brand.
Concludo con un pezzo di Marco Carnevale, sempre tratto dal suo libro La réclame dell’Apocalisse.
“A fronte degli arricchimenti leggendari di poche gigantesche imprese globali a vocazione monopolistica, il trionfo dell’adtech ha danneggiato in profondità l’intera filiera dell’industria pubblicitaria mondiale, spingendo le aziende a disperdere ingentissime risorse nello sterile inseguimento di score insignificanti e spesso del tutto inattendibili, trasformando le agenzie in catene di montaggio a ciclo continuo di contenuti di infimo livello, smantellando una cultura professionale affinata nell’arco di oltre un secolo in favore della meccanica applicazione di formule preconfezionate (nonché volatili come i trend giovanilistici) e – dulcis in fundo – svilendo la sottile arte di comunicare in una forma ottusa e ossessiva di stalking ai danni del pubblico; un pedinamento talmente pervasivo e invasivo nelle modalità da provocare il più diffuso ed esplicito rigetto della pubblicità mai registrato nella storia.
Condivido in pieno la sua analisi, ma sono più ottimista di lui. La creatività sta subendo il più grande attacco di sempre, perché Data Driven e AI sono due nemici temibili, ma è anche vero che senza creatività la pubblicità è solo una grande rottura di coglioni.
Sono convinto che prima o poi i brand torneranno a comprenderlo.
Per noi creativi si tratta solo di resistere. Bisogna superare indenni questo ottuso trend illuminista, questa fastidiosa gentrificazione del media, nell’attesa che le aziende e le agenzie recuperino il senno e capiscano che per parlare alle persone, per farle emozionare anziché annoiarle, non si può fare a meno della bellezza, dell’ironia e dell’intelligenza.
Nel frattempo, un buon modo per resistere è restare aggiornati. Puoi farlo esplorando e imparando a usare tutti i nuovi tool dell’Intelligenza Artificiale, ma anche leggendo Inside he Black Box di Bob Hoffman o, soprattutto, l’imperdibile pamphlet di Marco Carnevale, La réclame dell’Apocalisse edito da Prospero Editore nella prestigiosa collana Bill.
Comment (1)
Grazie mille per tutte queste informazioni che hai condiviso.
Posso confermare che alcune cose che hai affermato le ho provate sulla mia “pelle”.
Purtroppo il passaggio attraverso questi sistemi risulta ancora indispensabile per venire a contatto con clienti nuovi quando si ha un sito generalista come il mio.
Però bisogna dosare gli investimenti e puntare a qualcosa di più efficace puntando il focus sui quei pochi clienti catturati attraverso i clic.
Altrimenti se ci si basa esclusivamente sulle inserzioni senza altre strategie non si va da nessuna parte.
Un articolo scritto in maniera illuminante.
Lo condivido con i miei colleghi.
Complimenti e grazie ancora