The Copycat

THE COPYCAT è il mini-thriller pubblicitario estivo che ho pubblicato nella mizionewsletter ogni giovedì, alle 17,10, durante l’estate 2023.

È stato un gioco, un divertimento, un test nato per evitare di abbandonare i lettori della mizionewsletter per più di due mesi durante l’estate.

Non è un thriller “serio”, nel senso che supera di poco le 80.000 battute, quindi sarebbe un “gialletto” che ha uno sviluppo narrativo ridotto, sintetico, meno di 50 pagine, e poi perché io amo il registro ironico.

Ad ogni modo, THE COPYCAT è stato pubblicato in 11 puntate, la prima è uscita il 29 giugno 2023, l’ultima il 7 settembre 2023. E nonostante sia nato per gioco è stato letto da oltre 2300 persone (ad oggi) che hanno seguito il mistero del serial killer dei copywriter e hanno fatto il tifo per Annamaria Bernbach Rizzo, aka la Commissaria Berni, e il padre Paul Rizzo, ex creativo malato di demenza senile ma vera mente delle indagini.

Ho deciso di pubblicare il mini-thriller anche sul blog, tutto insieme, per dare la possibilità di leggerlo anche a chi non è riuscito a farlo quest’estate a puntate, oppure non ha avuto la pazienza di centellinarselo settimana dopo settimana.

Insomma, adesso avete l’imbarazzo della scelta di come leggere THE COPYCAT, potete leggerlo a puntate nella mizionewsletter, partendo dalla prima, QUI, o leggerle qui sotto nel blog.

Spero che apprezzerete il mio impegno e, soprattutto, spero che apprezzerete THE COPYCAT.

Buona lettura.

1. THE COPYCAT.

Le targhe sulla facciata dell’edificio riportano nomi di gente morta. Uomini, e soltanto uomini, che se anche hanno fatto qualcosa di buono nel secolo passato per il settore a cui hanno dedicato la vita, ora con i loro nomi avvizziti e privi di vita contribuiscono a perpetuare l’agonia di un’industria che sembrava indistruttibile fino a qualche anno prima: la pubblicità, che adesso galleggia in una crisi senza fine. Eppure quegli uomini, forse un tempo eroi e oggi importanti solo per la toponomastica, sono meno morti di quel cadavere ritrovato in uno dei ventiquattro bagni dell’enorme ufficio senza pareti a cui qualche buontempone ha dato il nome open space. Un copywriter ucciso, che è anche la ragione principale per cui è arrivata lì questa mattina, l’unico motivo per cui si ritrova costretta a entrare in un’agenzia di pubblicità dopo tanti anni.

Scende dalla moto, toglie il casco integrale e libera i capelli neri, troppo lunghi per come li dovrebbe portare un Commissario di Polizia, troppo corti per evitare pregiudizi sul suo genere sessuale. Ma è da quando ha compiuto sedici anni che ha deciso di fregarsene dei pregiudizi, così mette il casco sotto il braccio e supera con passo deciso l’ingresso dell’agenzia. Non ha bisogno di chiedere informazioni alla receptionist perché c’è un uomo vestito con un completo elegante che la aspetta. E quest’uomo, con espressione sorpresa, le chiede: – il commissario Berni?

Anche senza fare ricorso alla sua capacità intuitiva capisce che il suo vice l’ha preceduta. Come tutti all’interno del commissariato non perde occasione di chiamarla con quel soprannome, Berni. Ma se per gli altri quel nomignolo rappresenta un gioco innocente, quasi simpatico, per Alfio Casella nasconde un’attitudine passivo-aggressiva e un malcelato astio nei suoi confronti. Il suo vice non riesce ad accettare di essere il sottoposto di una donna più giovane e in gamba di lui e, soprattutto, una donna che non si può scopare. Alfio è il misero prodotto finale di una becera mentalità di provincia, un modo di ragionare ottuso e patriarcale che fa fatica a estinguersi. E lei sa bene che non può fare niente per cambiarlo, che è troppo tardi per disinnescare i suoi bias cognitivi, e che alla fine può solo far sì che il suo disprezzo sia giustificato. Così appena rientrerà in commissariato lo metterà di ronda notturna nei pressi del campo Rom di via Bonfadini. I Rom, altra gente nei confronti della quale Alfio Casella nutre profondi pregiudizi.

– No, sono la commissaria Annamaria Rizzo, – lo corregge lei.

Il signore dal completo elegante si presenta a sua volta: – piacere, sono Ludovico Angeloni, l’amministratore delegato del Gruppo. La commissaria Rizzo gli stringe la mano, ma deve trattenere un’espressione di ribrezzo, il fastidio che prova nel sentire sotto i suoi polpastrelli la pelle lucida e fredda dell’amministratore delegato. Angeloni esprime la stessa empatia di un caimano, ha modi educati e formali ma nasconde qualcosa di cattivo nella profondità abissale dei suoi occhi. Insieme a lui Annamaria si sente al sicuro come nello studio medico di Josef Mengele oppure come ospite della famiglia di Charles Manson. Il primo pensiero è quello di voltarsi e scappare, il secondo è bruciargli i testicoli con i cavi elettrici che tiene nel bauletto della moto. Il terzo pensiero è quello che prevale: lo segue fino alla scena del crimine.

– La vittima è Fabio Palombella, uno dei creativi più esperti dell’agenzia. Un bravo copywriter che lavora per noi da una vita. Lavorava, volevo dire. Nel senso che negli ultimi anni aveva scelto di fare il freelance per seguire meglio la sua attività come scrittore, ma spesso veniva comunque in agenzia. Lavorava, anche nel senso che è evidente che da domani non lavorerà più, essendo stato ucciso. Ad ogni modo… uhm… spero di essermi spiegato. L’ha trovato l’uomo delle pulizie questa mattina in uno dei bagni dell’agenzia. Ieri sera ha fatto tardi per finire una presentazione importante. Nessuno l’ha visto uscire. Ed effettivamente.

– Grazie, – lo interrompe la commissaria Rizzo, – se ho bisogno di una sua dichiarazione ufficiale so dove trovarla. Grazie.

Ludovico Angeloni la accompagna fino alla soglia del bagno, poi la saluta. L’ambiente è piccolo e angusto: i tre uomini della scientifica si muovono con circospezione bardati con tute e calzari di plastica. Dentro una delle toilette c’è la vittima, dentro l’altra c’è il vicecommissario Alfio Casella che ha trovato l’unico angolo dove non può inquinare la scena del crimine.

– Berni!

– Hai trovato il tuo posto ideale, Casella, attento che qualcuno non tiri lo sciacquone, – lo zittisce la commissaria che subito dopo si dedica all’osservazione della scena del crimine.

Fabio Palombella, il morto, è seduto sopra il cesso come un pupazzo privo di vita. Ha il volto reclinato a destra e un grande taglio sotto la gola. Un secondo taglio è all’altezza della mascella, da cui parte un lembo di pelle sollevato come se qualcuno avesse voluto mutilarlo orrendamente per asportargli la pelle del viso. Il lavoro, però, è stato interrotto a metà. Sotto il cadavere c’è una grande macchia di sangue con al centro un cerchio regolare di una ventina di centimetri di diametro, pulito, come se in quel punto l’assassino avesse appoggiato qualcosa prima di torturare il copywriter. Alla sinistra del morto c’è un’altra chiazza umida che sembra vomito, mentre sopra c’è una scritta rossa fatta probabilmente con il sangue: IO AMAZZO.

– Scommetto che l’assassino voleva asportargli la pelle del viso, ma non ha fatto in tempo perché ha sentito un rumore o qualcosa che lo ha costretto a scappare, – dice Alfio Casella con tono saccente.

– Casella, guarda che il libro di Faletti l’ho letto anch’io, – gli risponde la commissaria.

– Allora non c’è dubbio che abbiamo a che fare con un serial killer.

– Dici? Io direi piuttosto che abbiamo a che fare con un coglione. È probabile che abbia provato a scarnificare il volto della vittima, ma poi si è impressionato e gli è venuto da vomitare. Vedrai che il vomito non appartiene a Palombella e se facciamo l’esame del DNA è probabile che avremo quello dell’assassino.

– Mi sembra una tesi assurda. E poi perché avrebbe dovuto copiare Io Uccido di Faletti?

– Questa è la prima domanda intelligente che fai Casella.

– Quindi? – ribatte arrogante il vice.

– Di certo non è un genio della scrittura: ha pure fatto un errore di ortografia.

La commissaria Rizzo esce dal bagno e lascia la scena del crimine agli uomini della scientifica. Anche se l’assassino potrebbe essere un coglione e un ignorante come pensa, non va sottovalutato il fatto che è pur sempre un efferato omicida, uno che non si è fatto rimorsi a copiare una delle scene più famose e crudeli dei gialli contemporanei. E magari non è una persona intelligente come il protagonista del libro di Faletti, ma è ugualmente uno psicopatico. Un copycat, un copycat letterario illetterato. Il copycat dei copywriter, forse. Qualcuno riderebbe di quel gioco di parole, e cioè il copycat dei copywriter, ma non lei. E non per rispetto della vittima o perché si sia appena trovata di fronte a una scena drammatica. Piuttosto perché i giochi di parole non l’hanno mai fatta ridere, li ha sempre odiati. E quel disprezzo è la diretta conseguenza del suo soprannome: Berni.

2. IL COMMISSARIO BERNI.

Ci sono giorni in cui il suo soprannome la irrita, altri in cui invece ne va quasi orgogliosa. Dipende. Dipende da un’infinità di circostanze. Le persone più semplici pensano che dipenda dal fatto che sia una donna, quindi in balìa degli sbalzi ormonali, mentre quelle che millantano una più ampia conoscenza dell’inconscio umano attribuiscono questa variabile impazzita alla sua fluidità di genere.

Ma sbagliano. Sbagliano tutti.

Quel soprannome, Berni, le piace o lo odia solo a seconda di chi lo utilizza. O meglio, a seconda dell’affetto che prova per chi insiste a chiamarla così. Oggi pomeriggio lo tollera abbastanza, si potrebbe dire a sufficienza, perché è in visita alla persona che è la causa di tutto: il padre. Paul Rizzo è stato un copywriter, un grande copywriter del passato, uno di quelli che hanno fatto la storia della pubblicità italiana, che ha ideato le campagne rimaste impresse nella memoria collettiva, quelle amate dalla gente obnubilata dalla televisione commerciale degli anni ottanta. E la sua passione per la pubblicità era così grande che quando le nacque la prima figlia femmina decise di chiamarla Annamaria Bernbach Rizzo. Annamaria da Annamaria Testa, una delle migliori copywriter italiane di sempre, Bernbach da Bill Bernbach, il più grande copywriter di tutti i tempi.

È facile immaginare che con questo nome Annamaria Bernbach Rizzo avrebbe dovuto avere un destino segnato. Ma non fu così. La bambina odiò da subito il mestiere del copywriter. Forse perché fin dall’asilo quel suo secondo nome si era tradotto in quell’odioso nomignolo, Berni. O forse perché, prematura com’era sempre stata, le erano state sufficienti un paio di visite nell’agenzia pubblicitaria dal padre per capire che quell’ambiente era pieno di gente vanitosa e immatura. Coglioni, come era solita catalogare lei le persone per cui non nutriva stima.

Annamaria Bernbach Rizzo non aveva mai avuto un carattere facile. Il motivo forse era da ricercare in quel nome strano e difficile da portare che il padre aveva scelto per lei, o piuttosto nella scomparsa della madre che, quando non aveva ancora compiuto cinque anni, era sparita da un giorno all’altro. Da allora né lei né suo padre avevano avuto più sue notizie. Neppure l’intervento di Chi l’ha visto? era servito per ritrovarla. E in conseguenza di quella perdita Annamaria aveva iniziato a maturare per il padre un sentimento conflittuale.

Da una parte lo amava, come ogni figlia femmina stravede per il papà, dall’altra lo disprezzava per il nome che le aveva dato e perché lo riteneva responsabile per la fuga della madre. Si era convinta che a causa della sua grande passione per l’advertising, per colpa di tutti i fine settimana passati in agenzia a lavorare e di tutte le notti chiuso in ufficio per finire qualche presentazione, la madre si fosse sentita trascurata e avesse sentito il bisogno di rifarsi una vita da qualche altra parte.

Quel profondo sentimento schizofrenico, quel rapporto conflittuale di odio e amore, aveva finito per condizionare il suo modo di vedere le cose. Per Annamaria Bernbach Rizzo il mondo si divideva in due: da una parte i coglioni e dall’altra gli Sherlock Holmes, i Marlowe e i Maigret.

Annamaria aveva cominciato a fare pace con il padre il giorno in cui lo aveva deluso profondamente annunciandogli che, nonostante il nome che portava, non avrebbe mai fatto il copywriter ma avrebbe fatto carriera in polizia. Lo perdonò del tutto in conseguenza ai sensi di colpa quando, ai primi segni di Alzheimer, lo aveva ricoverato in una RSA dell’hinterland milanese. Ma aveva cominciato a volergli di nuovo bene e ad accettare quel nomignolo tanto odiato, Berni, solo quando le sue capacità cognitive avevano iniziato a diradarsi e il vecchio copywriter riusciva a esprimersi solo con claim degli anni ottanta.

– Papà, come stai? – gli chiede.

– O così o Pomì, – risponde lui.

Annamaria aveva capito da tempo che il dialogo con il padre era diventato impossibile. Inutile chiedergli come stesse e cosa avesse voglia di mangiare. Lui non capiva, e anche nel caso in cui comprendesse cosa lei voleva dire, poi non riusciva a rispondergli. E così ogni volta che lo andava a trovare nella RSA era lei che gli raccontava la sua vita, con l’unica attenzione di usare sempre un tono di voce calmo e rassicurante, perché aveva scoperto che i malati di demenza non riuscivano più a decifrare i significati dei discorsi ma potevano ancora distinguere emozioni e sentimenti.

– Papà, sto seguendo un caso che ti sarebbe piaciuto. Oddio, magari ti avrebbe anche spaventato dato che si tratta di un omicidio fatto in un’agenzia di pubblicità, ma di certo lo avresti trovato affascinante. Hanno trovato un tuo collega copywriter ucciso in un’agenzia del gruppo MPP. Il suo nome è Fabio Palombella, e magari lo hai conosciuto in passato. Chissà, magari poco prima che tu andassi in pensione era un giovane pubblicitario. Comunque l’omicidio sembra la brutta copia di quello con cui inizia il giallo più famoso di Giorgio Faletti, Io Uccido. È un libro che mi avevi regalato tu, ricordi?

– L’uomo che non deve chiedere mai! – interviene il padre.

– Scusa papà, lo so: non devo chiederti niente. Le domande ti stressano perché non riesci a rispondere. Perdonami. È una domanda che mi è scappata. Non importa. Il fatto è che l’omicida ha provato a copiare la scena del crimine del libro. Ma lo ha fatto male. Ha provato a scarnificare il volto della vittima ma non ce l’ha fatta, non ha avuto il coraggio di andare fino in fondo. Addirittura la cosa gli ha fatto impressione e ha vomitato. La scientifica ha confermato che la macchia di vomito trovata vicino al corpo non appartiene alla vittima. La cosa paradossale, però, è che se anche ipotizzassimo di trovarci davanti un copycat letterario, cioè uno che copia i delitti dei gialli, come giustificheremmo il fatto che l’assassino è un ignorante? Infatti il coglione ha lasciato una scritta con il sangue della vittima: IO AMAZZO. Ma nel libro di Faletti la scritta era IO UCCIDO e l’omicida ha sbagliato perfino l’ortografia: ha scritto IO AMAZZO con una emme sola!

Il racconto di Annamaria viene interrotto dallo squillo del suo cellulare.

– Brondi, chi parla? – le chiede suo padre.

– Scusa papà, devo rispondere, è uno dei numeri di emergenza. E se mi chiamano oggi che è il mio giorno libero significa che la cosa è davvero urgente.

Annamaria si allontana qualche metro dal padre per rispondere al telefono: – Sì?

– Commissario Berni, sono Nerozzi della scientifica, ne abbiamo trovato un altro…

– Un altro di cosa?

– Un altro pubblicitario ucciso. Questa volta in uno studio di registrazione audio. Abbiamo bisogno che venga subito perché dobbiamo sigillare la scena del crimine.

– Ma non c’è nessuno del commissariato?

– C’è il suo vice Casella, è arrivato un’ora fa.Un’ora fa? E perché non mi ha avvertito? – si innervosisce Annamaria.- Un’ora fa? E perché non mi ha avvertito? – si innervosisce Annamaria.

_ Un’ora fa? E perché non mi ha avvertito? – si innervosisce Annamaria.

– Arrivo subito. Salgo in moto e arrivo. Mi mandi per favore l’indirizzo su Whatsapp.

Annamaria chiude la comunicazione e inspira l’aria profondamente quattro o cinque volte prima di tornare dal padre.

Lo accarezza sulla testa e gli dice con dolcezza: – so che dovevamo passare il pomeriggio insieme, ma è arrivata un’urgenza, come quelle che avevi tu un tempo. Però non si tratta di una campagna pubblicitaria, questa volta è un omicidio. Anche se in realtà nell’ultimo periodo pare che queste cose coincidano dato che è il secondo pubblicitario che uccidono nel giro di una settimana. È una città che non finisce di sorprendere, questa, tranne che per le urgenze, quelle ci sono e ci saranno sempre.

– Milano da bere, – le dice il padre sorridendo e ricambiando la carezza.

3. UNO STUDIO DI REGISTRAZIONE IN ROSSO.

La scena del crimine lei la conosce bene, l’ha immaginata trent’anni prima quando ha letto il suo primo giallo. Un uomo è sdraiato a pancia in su dentro uno studio di registrazione che ha le parteti coperte di pannelli fonoassorbenti rossi. Sul vetro che divide l’ambiente con i microfoni dalla zona di registrazione e di mixaggio c’è scritta la parola RACHE, in rosso, con un liquido che a prima vista sembra sangue. Il paradosso è che la vittima non presenta ferite.

Annamaria si inginocchia vicino alla vittima e si mette ad annusare. Ha la conferma di ciò che pensava: il corpo emana un cattivo odore che non ha nulla a che fare con i consueti odori della morte e della decomposizione.

– Commissario Berni, ha sentito? – le chiede Nerozzi, il responsabile della scientifica.

– È stato avvelenato?

– È un’ipotesi plausibile, – le risponde Nerozzi, – da cosa lo desume?

– Perché da bambina ho letto Lo studio in rosso di Arthur Conan Doyle.

L’uomo della scientifica la guarda inebetito, come se non capisse, allora Annamaria Bernbach Rizzo si spiega meglio: – Lo studio in rosso è il primo giallo in cui Sherlock Holmes appare come protagonista, e la scena dell’omicidio è identica a questa. Scommetto che sotto il corpo troveremo una piccola fede nuziale.

Il responsabile della scientifica continua a guardarla sorpreso, poi si riprende dallo stupore e inizia a frugare con delicatezza sotto il cadavere: non ci mette molto a trovare la piccola fede nuziale che Annamaria gli ha preannunciato. Nel frattempo si avvicina a loro anche Alfio Casella, il vicecommissario. Annamaria si trattiene dal chiedergli perché sia venuto sulla scena del crimine da solo, senza avvertirla. Conosce già la risposta, e per questo gli chiede informazioni sull’identità della vittima.

– Si chiama Paolo Giacobino, è un altro copywriter molto noto nell’ambiente, è stato direttore creativo di grandi agenzie ma ultimamente lavorava come libero professionista. Da molti è considerato il profeta del Purpose Marketing, per questo è uno che tiene spesso conferenze. Anzi, teneva – le risponde Casella

– Un’altra vittima, un altro copywriter.

– Commissario Berni, non so se ha notato la scritta sul vetro. Secondo me l’assassino voleva scrivere il nome di una donna, RACHELE, ma è stato interrotto.

– RACHE in tedesco significa vendetta, – le risponde sprezzante Annamaria, poi si allontana e lo lascia lì, stupito e incredulo. Vuole umiliarlo, quindi non gli spiega che quella non è un’intuizione sua, ma piuttosto quella di un personaggio di fantasia, prestigioso quanto si vuole ma pur sempre di fantasia, che si chiama Sherlock Holmes e che è stata fatta in un romanzo giallo quasi centocinquant’anni prima.

Se Annamaria Bernbach Rizzo non fosse appassionata di romanzi gialli in questo preciso istante dovrebbe impegnarsi a collegare tutta una serie di puntini incongruenti fra loro: un uomo avvelenato e un altro ucciso con un coltello, quasi scuoiato, e poi una piccola fede femminile trovata sotto un corpo, e ancora due scritte fatte con il sangue, la prima con un errore grammaticale e la seconda che reclama vendetta. Ma sa che tutti questi indizi la porterebbero a un rebus impossibile da risolvere, mentre la narrativa dei due omicidi su cui sta indagando le dice qualcosa di diverso: c’è qualcuno che sta uccidendo dei copywriter e lo fa rimettendo in scena delitti di libri gialli famosi. Io Uccido di Giorgio Faletti nel caso di Fabio Palombella, Lo studio in Rosso di Arthur Conan Doyle per Paolo Giacobino.

Ma le scene hanno qualcosa a che fare con le vittime oppure sono scelte a caso? E la scritta con il sangue, cosa che hanno in comune entrambi gli omicidi, perché una volta è in tedesco e una volta ha un errore di grammatica? L’errore è voluto oppure l’assassino non conosce bene l’italiano, è straniero e magari proprio tedesco?

La scritta riporta un altro punto in comune fra i due delitti.

La commissaria scommette che il sangue di quest’ultima, RACHE, sia quello di Fabio Palombella, la prima vittima. Nella prima scena del crimine c’era una strana forma circolare in mezzo alla pozza di sangue vicino al water. Annamaria è sicura che sia quella di un secchio in cui l’assassino ha raccolto il sangue di Palombella quando ha provato a scorticargli la faccia. E che lo stesso sangue sia stato usato per comporre la scritta RACHE sul vetro.

È la prima vera intuizione che ha, indipendentemente dai suggerimenti che le hanno dato Faletti e Arthur Conan Doyle nei loro romanzi.

Annamaria decide di abbandonare la scena del crimine: lì non c’è più niente che possa fare né nulla che possa dedurre. Saluta il responsabile della scientifica e ignora il suo vicecommissario.

Esce dal palazzo e lì fuori la coglie di sorpresa una cosa imprevista: ad aspettarla, come in un agguato, ci sono decine di giornalisti e diverse troupe televisive. Capisce che tutta quella curiosità non è dovuta al fatto che a Milano ci siano stati due omicidi nel giro di appena una settimana, ma che potrebbero essere stati compiuti da un serial killer.

Ha una reazione istintiva: indossa il casco, salta al volo sulla sua moto e l’accende in un’istante. Quindi scappa via sgommando. Non ha mai amato le interviste, ma questa volta non saprebbe neppure rispondere alle loro domande. Stiamo avendo a che fare davvero con un serial killer?

Non lo sa.

Perché non sono sufficienti due omicidi per definire un omicida seriale, e poi non c’è ancora la certezza che i due delitti siano collegati. E poi perché vengono uccisi i copywriter? Non sa neppure questo.

Che le due vittime facciano lo stesso mestiere potrebbe essere casuale, magari l’omicida le conosceva entrambe. Oppure potrebbe trattarsi di un macabro scherzo del destino, due omicidi completamente diversi per due persone che non si conoscevano tra loro, ma che hanno in comune la stessa professione.

Mentre corre con la moto sul pavé parallelo al Naviglio Grande, Annamaria cerca di isolare i suoi pensieri dai continui sobbalzi della sua scatola cranica all’interno del casco. E nonostante tutto riesce a pensare e arriva alla conclusione che deve partire da lì: capire se le due vittime si conoscevano e cosa avevano in comune

Ma anche se scoprisse che c’è un legame, poi come potrebbe spiegare che in giro c’è un folle che ammazza innocui copywriter? Quale potrebbe essere il motivo? Giacobino e Palombella avevano dei nemici? Suo padre era uno di loro e i rancori nella categoria dei pubblicitari si limitavano a invidie puerili, come quello che aveva vinto un premio più di un altro, oppure screzi su campagne finte e copiate. Ma questi fatti potevano giustificare una serie di omicidi?

L’unica cosa chiara ad Annamaria è che la possibilità che ci sia in giro un serial killer di copy è uno scenario che in fondo agli abissi del suo animo non le dispiace affatto. Era da quando aveva cinque anni che reputava quel mestiere il responsabile della sparizione della madre, e il fatto che qualcuno le stia rendendo giustizia le fa provare un senso intimo e vergognoso di piacere.

Un sentimento che sa bene non essere sano, un piacere che non le rende onore, e che prova a cancellare inclinando il polso al massimo ed entrando con la moto a tutto gas nella circonvallazione esterna milanese.

4. DIO, PATRIA E FAMIGLIA.

L’ufficio sembra quello di un notaio di provincia, totalmente privo di personalità ma con mobili in radica di noce che esprimono la pesantezza della carica della persona che occupa quella stanza. Un arredamento opulento che non trasmette niente di personale, ma che probabilmente il burocrate ha ereditato dalle persone che occupavano la stessa carica e lo stesso ufficio prima di lui. Forse le uniche cose che il dottor Antonino Cirinnà ha introdotto in quegli spazi da quando è stato promosso Questore sono il crocifisso gigante intarsiato con pietre colorate che svetta sopra di lui, la bandiera italiana con colori tanto vividi da sembrare appena tirata fuori dal cellophane e la foto sulla scrivania di una famiglia perfetta, sia come numero sia come orientamento sessuale. Dio, Patria e Famiglia.

Il messaggio è chiaro, ma come se non fosse sufficiente e il Questore fosse un fervido amante del pensiero didascalico, la foto familiare non è girata verso di lui bensì punta lo sguardo dell’ospite come un monito. E l’ospite è il Commissario Berni.

Annamaria sa che in questura le voci su di lei si espandono ad ogni livello e si domanda se il dottor Cirinnà tenga sempre la foto rivolta verso gli altri oppure abbia deciso di girarla in occasione della sua visita. Ha la certezza che quella scelta sia stata fatta in suo onore non appena ascolta la prima domanda che le rivolge il Questore: – commissario Rizzo, lei è sposata? Ha famiglia?

Sembra una domanda innocua, di circostanza, solo per rompere il ghiaccio, se non fosse che le voci che girano pure sul nuovo questore parlano di un quarto elemento d’arredo che si è portato appresso dal precedente incarico: un mezzobusto mussoliniano, un soprammobile di marmo tenuto celato dentro uno dei mobili di radica di noce, ma pronto a uscire allo scoperto non appena la nuova classe dirigente della Repubblica Italiana acquisirà un po’ di arroganza in più.

Annamaria è tentata a rispondere che no, non ha una famiglia, ma che se ce l’avesse non sarebbe uguale a quella banale e ipocrita del Questore, ma con il tempo ha imparato che provocare i superiori non porta niente di buono. Trattiene il suo spirito ribelle e risponde semplicemente: – no.

Il Questore però non sembra soddisfatto, accarezza con le mani il doppiopetto grigio che trattiene a stento la sua flaccida tracotanza e le fa un’altra domanda personale: – Annamaria Bernbach Rizzo, un nome peculiare…

Il Commissario Berni capisce che anche quell’affermazione nasconde una trappola. Al Questore non piace il fatto di trovarsi di fronte una donna con un ruolo di comando, non gli piace che questa donna gli sbatta in faccia la sua fluidità di genere, non gli piace che abbia un nome strano, da fricchettoni, e pensa che dipenda dal fatto che sia cresciuta in una famiglia radical chic, gente che non è in grado di educare i figli secondo i sani e tradizionali principi, – Bernbach… – insiste il Questore.

Annamaria è certa che il dottor Cirinnà abbia fatto un veloce censimento nella sua limitata cultura per ricordare qualche filosofo di sinistra con lo stesso nome, ma scommette che si è fermato a Marx, poi probabilmente gli è venuto in mente Groucho Marx. Così decide di venirgli incontro: – in effetti mio padre era una persona peculiare. Un pubblicitario. Un copywriter per la precisione, come i due appena uccisi. E Bernbach è stato uno dei più grandi copywriter di tutti i tempi.

Il Questore sembra soddisfatto a metà: va bene che Bernbach non è il nome di qualche ideologo di sinistra ma è pur sempre un nome straniero e il pensiero politico nazionale emergente suggerisce di rinunciare alle parole straniere, come ai tempi di quel mezzo busto chiuso dentro il mobile alle sue spalle.

– Come vede conosco bene il settore della pubblicità, per questo non dovrebbe togliermi l’indagine.

– Perché pensa che le voglia togliere l’indagine?

– Non tutti i giorni capita di essere convocati nell’ufficio del Questore.

– Vede, si tratta di una cosa delicata… i giornali escono con titoli cubitali e noi non abbiamo ancora scoperto niente.

– Sono passate solo due settimane.

– Sì, ma è la prima volta che abbiamo un serial killer a Milano!

– È ancora presto per affermare che si tratti di un serial killer.

– E allora cosa abbiamo scoperto? – dice bruscamente il Questore alzando il tono di voce.

– Un collegamento tra le due vittime c’è, ma è molto debole. Fabio Palombella e Paolo Giacobino si conoscevano, d’altronde il settore è piccolo, circoscritto, ma non si frequentavano da anni. Avevano lavorato nella stessa agenzia una quarantina di anni fa, un’agenzia che non esiste più e che si chiamava SCM, un acronimo di Studio Comunicazione Moderna.

– Ecco, vede che siamo di fronte a omicidi seriali, – conclude il Questore sbattendo una mano sul tavolo come a voler concludere la discussione, – ho deciso che la farò affiancare da qualcuno. D’altronde lei è una…

La frenata improvvisa del Questore denuncia che stavano per scappargli delle parole di cui si sarebbe potuto pentire, in pubblico. Ma Annamaria conosce bene quelle parole e le completa: – una donna?

– No, – la corregge il dottor Cirinnà con imbarazzo malcelato, – volevo dire che è un’ottima professionista ma non ha le competenze per affrontare da sola l’indagine su un efferato omicida seriale.

Un’altra cosa che Annamaria ha imparato è che non serve controbattere, qualsiasi cosa dirà adesso si ritroverà comunque ad avere a che fare con qualche incompetente che non farà altro che complicare il suo lavoro. Si limita ad inclinare la testa e a guardare il Questore di sbieco. Gli esprime quello che pensa di lui senza dirglielo. Ma il suo sguardo è un eloquente giudizio di disprezzo.

Lo disprezza come disprezza Alfio Casella, anche se il suo vice può contare sull’alibi dell’ignoranza, sulla mancanza di cultura, perché arriva da un remoto paesino del sud ed è rimasto ostaggio di una serie di pregiudizi tramandati nei secoli da famiglie che per generazioni si sono dedicate a coltivare i campi, mentre il Questore Cirinnà ha studiato e il suo bieco modo di pensare è figlio di una mentalità ottusa, incapace di accettare che il mondo possa andare avanti e che si batte per conservare uno status quo gattopardiano che sta facendo marcire questo paese fin dalle fondamenta.

– Non capisco perché tutta questa urgenza, – si limita a ribattere il commissario Rizzo.

– Lunedì prossimo c’è la settimana della moda. Ha chiamato lui… – le risponde il Questore alzando gli occhi al cielo.

– Chi? Dio? – Annamaria non riesce a frenare la battuta.

– Non sia blasfema! – si infiamma il Questore battendo con forza entrambe le mani sulla scrivania, – naturalmente mi riferivo al signor A… e. cioè al signor G… A… se mi capisce bene … ma nessuno di noi vuole che finiamo sui telegiornali del mondo intero, non siamo d’accordo su questo?

Squilla il telefono sulla scrivania del Questore che, senza neppure scusarsi, interrompe la conversazione e alza la cornetta. Mentre l’uomo grugnisce monosillabi incomprensibili al telefono, Annamaria fantastica sul delitto del terzo copywriter durante la settimana della moda. Immagina i servizi della CNN, reporter scandalizzati perché la vittima non indossa capi all’altezza delle griffe italiane e perché la stessa scena del crimine risulta priva di arredi di design, così da mettere a rischio pure l’immagine dell’incombente Fuorisalone. Ma le sue fantasticherie vengono interrotte dal rumore della cornetta che viene schiantata sul suo supporto di plastica. E dalla voce del Questore che non nasconde la sua maligna soddisfazione: – hanno trovato il terzo copywriter morto!”

Annamaria assorbe l’informazione in silenzio: in un attimo il terzo omicidio di un copywriter si è trasformato da grottesca fantasia in crudele realtà. Intanto il Questore insiste a prendersi la sua rivincita: – è ancora convinta che non ci troviamo di fronte a un serial killer? A prescindere da quello che pensa, faremo come dico io. Da oggi lei sarà affiancata dal dottor Anselmo Facheretti, un esperto profiler di fama nazionale.

Ma al Commissario Berni non interessa l’identità del profiler, quanto piuttosto quella della terza vittima. Chi sarà il terzo copywriter ucciso? Sarà anche lui una vittima illustre del mondo della pubblicità? Lo scoprirà presto e le indagini prenderanno una piega del tutto imprevista. Ci sarà addirittura qualcuno pronto a scommettere che il movente principale di tutta questa faccenda abbia a che fare con il sesso.

5. IL PROFILER MANIACALE.

Anselmo Facheretti è famoso a livello nazionale, ma non per essere stato protagonista di indagini su omicidi seriali quanto per aver partecipato a programmi televisivi come Porta a Porta, Storie Maledette o Chi l’ha Visto? ogni volta che l’Italia si è appassionata a un delitto che ha risvegliato la sua curiosità morbosa. Annamaria lo ascolta insieme al suo vicecommissario, Alfio Casella, nella stanzetta angusta del Commissariato che il Questore ha riservato al Pool Serial Killer, un team speciale che con enfasi ha annunciato sui giornali e che in realtà è composto solo da tre persone: Annamaria Bernbach Rizzo, Alfio Casella e il profiler Anselmo Facheretti.

– Partiamo dall’ultimo omicidio, quello appena scoperto di Pietro Allievi. L’omicida non si è accontentato di un solo fendente ma ha infierito sulla vittima ben dodici volte. Dodici coltellate sono più di un indizio. Sono la certezza che abbiamo a che fare con un movente di natura sessuale, – conclude il profiler tronfio di sé mentre con un pennarello scarico scarabocchia segni incomprensibili sulla piccola lavagna di plastica che occupa metà della stanza del Pool Serial Killer.

– Lo sapevo che avevamo a che fare con un maniaco sessuale! – si entusiasma il vicecommissario Casella, eccitato per trovarsi al cospetto di un noto personaggio televisivo, – scommetto che nel primo delitto ha voluto scarnificare il volto della vittima perché ha problemi d’identità sessuale!

Il profiler strizza l’occhio al vicecommissario, soddisfatto di aver trovato un pubblico accondiscendente anche se ridotto, poi aggiunge: – infatti è probabile che l’assassino non accetti la sua omosessualità, non a caso le vittime sono sempre uomini!

– Scusate, ma non può dipendere dal fatto che solo gli uomini riescono a fare carriera in pubblicità? Che sono poche le donne che durano quarant’anni in questo settore? – interviene Annamaria.

I due uomini la degnano appena di uno sguardo, poi continuano a scambiarsi opinioni complici ignorandola di proposito. Lei lascia fare e trova superfluo condividere le cose che ha capito, tanto sarebbe inutile provare a convincerli che il sesso con quei delitti non ha niente a che fare.

Il profiler e il vicecommissario si stanno concentrando sulla violenza degli omicidi, almeno del primo e del terzo, ma non stanno valutando il resto degli indizi. L’ultima vittima, Pietro Allievi, è stato trovato sul set dello spot della Xamamina, il farmaco contro il mal di viaggio. Gli scenografi hanno ricreato l’interno dello scompartimento di un treno e gli oggetti trovati vicino al cadavere sono stati scambiati da tutti per materiale di scena. Tutti tranne che dal commissario Berni.

Annamaria sospettava che il fazzoletto, il nettapipe, l’orologio rotto e l’uniforme da controllore non avessero niente a che fare con lo spot. Per confermare la sua intuizione ha controllato sullo story board appeso alle pareti del set. Anche se in realtà non avrebbe avuto bisogno di quell’ulteriore conferma per essere certa che erano stati messi lì dall’assassino: lei conosceva quella scena del crimine, così come conosceva le altre. Perché anche quella era la scena di uno dei più famosi delitti della letteratura gialla. Era descritta all’inizio di uno dei thriller di Agatha Christie, Assassinio sull’Orient Express, con protagonista l’investigatore belga Hercule Poirot.

Condividere un’informazione del genere con i suoi colleghi sarebbe stato importante, non fosse che quei due cxxxxxxi, come li definiva lei, si erano fissati sul movente di origine sessuale. Il profiler sembrava ossessionato da quell’ipotesi, tanto che ogni volta che la esponeva diventava paonazzo e tracciava segni sempre meno leggibili sulla lavagna. Forse questo poteva rafforzare le voci che giravano su di lui, e cioè che se non un maniaco sessuale, fosse almeno un porco con denunce di molestie e di stalking da parte di starlette conosciute nei corridoi delle trasmissioni che bazzicava.

Solo su una cosa il profiler, il suo vice, e anche il Questore Cirinnà, sembrava avessero ragione. Ormai era evidente che si ritrovavano a indagare su un omicida seriale di copywriter. Anche se il modus operandi di questo serial killer era sui generis. Perché di solito i serial killer riproducono sempre la stessa scena, ripetono gli stessi rituali, mentre l’assassino dei copywriter cambiava ogni volta modalità e ogni volta la copiava da un delitto letterario. Cosa poteva significare tutto questo?

– Bisogna scoprire di più sulla vita sessuale delle vittime, – insiste il profiler Facheretti, – è possibile che anche loro fossero cripto-gay…

– In effetti moda e pubblicità sono tutte piene di ricchioni… – lo spalleggia Alfio Casella.

– Ditemi che non state dicendo sul serio, – Annamaria fulmina con lo sguardo il suo vice, poi si rivolge direttamente al profiler, – mi spieghi perché allora la seconda vittima è stata avvelenata, se l’assassino è un represso violento, perché non ha infierito su Paolo Giacobino come ha fatto con Fabio Palombella e Pietro Allievi?

– Forse perché semplicemente non ne ha avuto il tempo, magari ha sentito un rumore e si è dovuto allontanare, – il profiler si interrompe un attimo, poi affonda il colpo basso, – si domandi invece perché lei fa fatica ad accettare che l’assassino potrebbe essere gay…

– Già, chissà perché… – irrompe con una grassa risata Alfio Casella.

Annamaria Bernbach Rizzo non risponde. Si alza, li fissa come se stesse guardando due bambini deficienti ed esce dalla stanza. Non si sente offesa, in passato ha affrontato umiliazioni peggiori, ma non sopporta di sprecare il suo tempo con personaggi biechi, dalla mentalità ottusa e dall’intelligenza ancora più ristretta, capaci solo di seguire teorie stereotipate e assurde che non portano da nessuna parte.

Nell’esatto istante in cui l’ha nominato, si è ricordata che il nome di Pietro Allievi le dice qualcosa, che è un ex collega del padre. E se suo padre non soffrisse di Alzheimer andrebbe da lui per chiedergli informazioni, ma data la sua confusione mentale preferisce rivolgersi allo zio Checco. Tira fuori lo smartphone dalla tasca e manda un whatsapp a un numero che conosce bene. – Vengo a trovarti, – dice il messaggio.

Lo zio Checco, di conseguenza, non sarà certo sorpreso dalla visita di Annamaria. Sarà Annamaria a essere sorpresa da altre e importanti rivelazioni. Ma chi è o lo zio Checco veramente? Anche lui è un grande ex protagonista della pubblicità italiana?

6. LO ZIO CHECCO.

Lo zio Checco in realtà non è uno zio, o meglio non è lo zio di Annamaria Bernabach Rizzo. Probabilmente ha qualche parente sparso per l’Italia, specie a Roma, città dalla quale proviene, ma non ha nessun legame di sangue con il commissario Berni. Francesco Romagnoli è stato il miglior amico di Paul Rizzo, e lo sarebbe ancora se il padre di Annamaria fosse in grado di avere relazioni interpersonali. I due si erano conosciuti da giovani quando entrambi erano copywriter junior in qualche piccola agenzia pubblicitaria italiana, poi avevano continuato a frequentarsi quando le loro carriere avevano preso strade diverse.

Dopo la scomparsa della madre di Annamaria, Checco era stato molto vicino a Paul, tanto che cenava quasi tutte le sere a casa loro. Annamaria si era affezionata a lui e aveva iniziato a chiamarlo zio.

Francesco Romagnoli aveva smesso di fare il copywriter più di dieci anni prima. Aveva rinunciato alla carriera non appena aveva capito che quello non era più il mondo che aveva amato da giovane, quello in cui poteva essere brillante ed esprimere la sua fantasia. Lo aveva mollato quando aveva raggiunto la definitiva consapevolezza che la creatività aveva perso, che il digital aveva rivoluzionato le regole del gioco e che il marketing, il vero vincitore del settore, cominciava a produrre comunicazione come se la gente fosse idiota. E lui non riusciva a pensare idee per gli stupidi, aveva troppo rispetto per se stesso e per il suo lavoro.

Per sua fortuna era stato uno degli ultimi copywriter a guadagnare bene, così era riuscito a coronare uno dei sogni ricorrenti dei pubblicitari anni ottanta: aprire un agriturismo. Puerto Escondido, così lo aveva chiamato, era un vecchio casale in provincia di Piacenza, a una decina di chilometri da Borgonovo Val Tidone, che aveva ristrutturato con i suoi risparmi. Checco Romagnoli si era tenuto per sé la camera più grande, quella in cui viveva, mentre affittava le altre ai turisti per arrotondare la pensione.

Non è la prima volta che Annamaria va a trovarlo, ma è la prima volta che ci mette meno di un’ora partendo da Milano. Deve rallentare con la moto solo quando la strada inizia a salire verso la collina e le curve diventano meno dolci. Qualcuno le ha detto che poco prima di Borgonovo hanno installato degli autovelox, ma lei se ne frega. Al peggio si farà togliere le multe, d’altronde sta andando là per un’indagine importante.

La stradina che dalla provinciale conduce a Puerto Escondido è sterrata, la polvere la avvolge completamente, tanto che deve decelerare ancora, e ancora, finché la visibilità migliora e vede da lontano l’aia del casale e lo zio Checco che gioca a bocce con una coppia di turisti tedeschi. Anche lo zio la vede e la saluta con un braccio.

La giornata è bella, assolata, e lo zio Checco la fa accomodare a un tavolino di legno fuori dal casale. Prende un fiasco di vino rosso e due bicchieri di vetro, li riempie.

– Mi fa piacere vederti, ma devo ammettere che sono sorpreso, – dice lo zio Checco guardandola negli occhi, – erano anni che non venivi più… – poi fa una pausa e le fa la domanda che era rimasta sospesa nell’aria, – è successo qualcosa a Paul?

– No, zio, – risponde Annamaria, – papà sta bene… o almeno come sempre… sono qui per lavoro.

Lo zio Checco non replica niente, ma sorseggia il suo vino come a farle capire che la ascolta.

– Non so se hai letto i giornali, ma a Milano sembra che ci sia qualcuno che uccide i copywriter. E io sto dirigendo le indagini. L’ultima vittima si chiamava Pietro Allievi, e mi sembrava di ricordare che fosse un vecchio collega di papà.

– Non leggo più i giornali, perché il giornalismo non vale più niente, ha fatto la stessa brutta fine della pubblicità, ma mi ricordo di Pietro Allievi, sì, vieni che ti racconto, – e le fa cenno di seguirla nell’orto dell’agriturismo.

Lo zio Checco prende una manichetta e inizia a innaffiare una verdura nell’orto, anche se Annamaria non saprebbe dire cosa sia, per lei potrebbe trattarsi di qualsiasi vegetale.

– Comunicazione, informazione, e tutto il cosiddetto terziario avanzato è morto, non mi interessa più. Questo è quello che invece mi appassiona adesso: l’orto, l’agricoltura. Mi piace vedere le cose crescere dal nulla, mi piace assistere al miracolo della natura, i semi che si trasformano in frutti e che diventano sostentamento per le persone, è qualcosa di tangibile, utile, non come tutte quelle cazzate effimere che producono la pubblicità o la moda.

Gli ex e i convertiti sono sempre i peggiori, pensa Annamaria, i più critici nei confronti delle passioni del passato. E come gli ex fumatori, non tollerano neanche il più impercettibile odore delle sigarette. Spera solo che il pippone dello zio Checco non duri troppo.

È fortunata.

– Ricordo bene Pietro Allievi.

Annamaria resta in silenzio, nella speranza che lo zio Checco continui il suo racconto, ma prima deve sorbirsi altri cinque minuti di soliloquio sul miracolo dei ravanelli.

– Tuo padre conosceva Allievi fin dai tempi della SCM, ancora prima che io e lui ci incontrassimo per la prima volta, – riprende a raccontare lo zio Checco, – vedi Berni, lo Studio Comunicazione Moderna era un’agenzia mitica a qui tempi, una delle migliori boutique creative italiane, e da lì sono passati quasi tutti i creativi migliori degli anni ottanta.

– Ci hai lavorato anche tu? – gli chiede Annamaria.

– No, io ho iniziato a lavorare più tardi, quando l’SCM non era più in auge e con tuo padre ci siamo incrociati in una delle agenzie inglesi che hanno aperto da noi.

– Ricordi per caso se mio padre ti aveva parlato anche di Fabio Palombella e di Paolo Giacobino? Se anche loro hanno lavorato lì? – lo incalza Annamaria.

– Non ricordo se me ne ha parlato, ma posso dirti con certezza che anche loro hanno lavorato in quell’agenzia. La SCM era ambita da tutti quelli che volevano entrare in pubblicità e i creativi che ci lavoravano erano visti come star. Rizzo, Allievi, Palombella, Giacobino… poi c’era anche il mitico Pino Spilla, che poveretto è morto sette anni fa, e Gerardo Cecchi Paone, che ha mollato tutto e sembra che si sia trasferito negli Stati Uniti… sono quelli che mi ricordo, ma da lì è passata davvero tanta gente…

– Dove potrei trovare la lista dei copywriter che ci hanno lavorato? – domanda Annamaria.

– Eh! La SCM ha chiuso da chissà quanto tempo. Potresti provare a sfogliare gli annual di quegli anni e guardare i credits delle campagne. Metà delle campagne premiate allora erano firmate da loro.

– Ho da chiederti un’ultima cosa, zio: pensi che sia possibile che qualcuno di questi copywriter abbia nutrito così tanto rancore nei confronti degli altri da volerli uccidere dopo così tanti anni?

La risata di Checco Romagnoli è dirompente, passano alcuni minuti prima che riesca a rispondere: – Berni, stiamo parlando di narcisisti cronici, vanitosi che vivevano di competizione e che si facevano i peggiori dispetti pur di primeggiare. Ho assistito a scene incredibili per la semplice attribuzione di un credit, gente che non si è parlata per anni solo perché qualcuno era andato al Festival di Cannes piuttosto di un altro. Erano bambini viziati e stupidi, ma appunto bambini, e intellettuali, capaci solo di produrre parole. Nessuno di loro avrebbe le palle per fare il serial killer.

– Uhm, – annuisce Annamaria riflessiva, – un branco di immaturi, quello che ho sempre pensato anch’io, ma resta il fatto che c’è qualcuno che sta uccidendo i copywriter dell’SCM. E se non è uno di loro, chi potrebbe essere?

7. L’ANNUAL DEL 1985.

Nei giorni successivi al terzo omicidio, quello di Pietro Allievi sul set dello spot della Xamamina, le agenzie pubblicitarie milanesi si erano svuotate. I giornali continuavano a uscire con articoli sul serial killer dei copywriter e sul gruppo di copywriter più importante di Facebook, Un posto al Copy, la gente continuava a pubblicare supposizioni inquietanti, tra cui quella che il serial killer attingesse le vittime da lì. Daniela Montoggi, la fondatrice, aveva deciso così di cambiare temporaneamente il nome in Un posto al Pony, e i membri del gruppo per cercare di mimetizzare la propria professione avevano iniziato a postare conversazioni sull’ippica. Ma non erano i soli a temere per la propria vita: tutta la gente che lavorava in pubblicità era andata nel panico.

Nelle agenzie di pubblicità i primi a chiedere di lavorare in smart working erano stati proprio i copywriter, terrorizzati dalle uccisioni, a cui erano seguiti gli art director, per il semplice timore che l’assassino ripiegasse su di loro non trovando in agenzia le sue vittime preferite. Dopo gli art director era toccato infine agli account che avevano motivato la loro richiesta con un ragionamento inappuntabile: se uccidono i creativi pazienza, li sostituiamo con stagisti, ma se uccidono noi l’agenzia perde i clienti.

E così le agenzie di pubblicità erano tornate a essere deserte come ai tempi del lockdown: era possibile attraversare i lunghi corridoi degli uffici dei grandi gruppi internazionali senza incrociare anima viva, e quegli spazi una volta frenetici riportavano la stessa desolazione degli sperduti e polverosi villaggi del Far West, con la differenza che invece delle piante di salsola si vedevano rotolare per terra i rough accartocciati di vecchie campagne scartate da qualche cliente.

Al contrario degli uffici delle agenzie di pubblicità milanesi, quello del Pool Serial Killer è al limite della sua capienza, ma solo perché è talmente angusto da riuscire a ospitare solo i tre componenti della squadra: il commissario Berni, il vicecommissario Alfio Casella e il profiler Anselmo Facheretti. I due uomini sono davanti a un monitor collegato a un vecchio lettore U-matic, un vecchio formato di videocassette introdotto Sony nel 1971 e un tempo molto utilizzato in pubblicità. Stanno guardando lo showreel con tutti i vecchi spot di Pietro Allievi, un centinaio almeno, e cercano di trovare indizi. Inutile aggiungere che gli indizi che cercano sono sempre di natura sessuale.

Sullo schermo appare il vecchio spot di un gelato. Un ragazzo, diventato famoso per aver fatto cinema, abborda due ragazze in un baretto della costiera romagnola. Il dialogo va avanti finché Anselmo Facheretti non schiaccia il tasto di pausa sul telecomando.

– Two gust is mei che one! – esclama soddisfatto.

Il vicecommissario Alfio Casella lo guarda incuriosito, ma Facheretti insiste: – ci siamo!

Casella ripete poco convinto: – ci siamo?

– Capisco che l’indizio non sia evidente, e che solo un esperto come me poteva coglierlo, ma una volta compresa la psicologia dell’Allievi questa battuta è la cartina tornasole!

– E quindi… – tentenna il vicecommissario Casella cercando di non far capire che non ha capito.

– E quindi scrivendo questa battuta Pietro Allievi dimostra di essere bisessuale, – spiega Facheretti pieno di sé, – la cosa è lampante: two gust is mei che one significa che essere bisessuale è meglio di essere semplicemente etero!

– Ma nella scena sono presenti due ragazze, non vorrà invece dire… – prova a controbattere il poliziotto.

– Che ci siano due ragazze rafforza la tesi, perché l’Allievi ha voluto mimetizzare la sua vera natura sessuale. Sono pronto a scommettere che se potessimo controllare la sceneggiatura originale dello spot scopriremmo che in origine aveva previsto un attore e un’attrice. Quella delle due ragazze è stata sicuramente una modifica richiesta del cliente.

– Allora ci siamo, – si entusiasma Casella, – tutti e tre i delitti hanno un movente passionale!

Mentre i due uomini si scambiano high five con le mani e ripetono teorie strampalate, la commissaria Rizzo sta sfogliando un grande libro illustrato. È l’Annual del 1985 dell’Art Directors Club Italiano, l’associazione dei migliori creativi pubblicitari italiani. Un libro che raccoglie le campagne più belle di quell’anno, con tanto di foto e nomi degli autori. Annamaria non ha dovuto far richiesta all’ADCI per procurarselo, le è bastato cercare nella libreria del padre. Paul Rizzo li ha collezionati tutti, o quasi, dal primo Annual del 1981 fino a quello del 2018, quando ha smesso di interessarsi alla pubblicità a causa della malattia.

C’è un nome ricorrente in quell’Annual ed è il nome di un’agenzia, la SCM, Studio comunicazione Moderna. Metà delle campagne premiate sono firmate da quella sigla che non esiste più. E i nomi dei copywriter che le hanno ideate le sono familiari. Palombella, Giacobino e Allievi perché sono le prime tre vittime dell’assassino. Paul Rizzo perché è il padre. Spilla e Cecchi Paone perché gliene ha parlato lo zio Checco. C’è solo un nome che non aveva ancora sentito nominare, ed è lo stesso che urla l’agente di polizia entrando di slancio nel piccolo ufficio del Pool Serial Killer: – c’è un altro copywriter morto, si chiama Marco Laccio!

Marco Laccio non lavorava più in agenzia da quando aveva deciso di dedicarsi alla scrittura di romanzi thriller. Si era stufato delle dinamiche della pubblicità, delle continue ingerenze dei clienti e siccome aveva venduto le quote dell’agenzia che aveva fondato anni prima, poteva dedicarsi alla sua seconda carriera da scrittore. Nonostante la sua assenza dalle scene della pubblicità era ancora conosciuto nell’ambiente perché qualche anno prima era stato presidente dell’Associazione Italiana Copywriter.

La commissaria Berni è certa che la notizia del suo omicidio terrorizzerà ancora di più il mondo del copy. Non tanto per la fama di Laccio, quanto per il fatto che sia stato ucciso a casa sua. Significa che i copywriter non sono al sicuro neanche in smart working.

L’ultima vittima è stata trovata in una pozza di sangue, con il cranio fracassato. L’arma usata per il delitto è davvero originale: una macchina per scrivere, una vecchia Olivetti Lettera 22 che Laccio usava ancora invece del più comune computer con word processor. Intorno al corpo sono sparpagliati dappertutto fogli di carta, alcuni mezzo bruciacchiati. E uno di questi fogli Marco Laccio ce l’ha infilato nella bocca, come se l’assassino avesse cercato di soffocarlo.

– Potebbe trattarsi del romanzo che stava scrivendo, – dice sottovoce la commissaria Berni.

– Grigio, – la corregge Nerozzi, il capo della scientifica, – e anche questo aveva come protagonista Pietro Adda.

Il vicecommissario Casella e il profiler Facheretti osservavano in silenzio Nerozzi mentre continua a trafficare intorno al cadavere e si scambiano occhiate complici: stanno pensando come collegare anche questo quarto omicidio alle loro strampalate teorie sessuali. La commissaria Rizzo pensa a tutt’altro: si chiede come sia possibile che la casa di Marco Laccio non abbia segni di effrazione. L’omicidio è stato scoperto grazie all’uomo delle pulizie che ogni mercoledì viene a rimettere in ordine. Ma la porta era chiusa e nessuna delle finestre è stata forzata. Che un assassino possa muoversi liberamente in un ufficio, in uno studio di registrazione oppure su un set è comprensibile, ma com’è possibile che riesca ad entrare in una casa senza forzarla? C’è solo una cosa che può spiegare l’accaduto: Marco Laccio ha aperto la porta all’assasino. Laccio conosceva il serial killer.

La commissaria Rizzo abbandona la scena del crimine, lasciando sul posto Nerozzi, Facheretti e Casella. Non c’è nient’altro che al momento ha bisogno di scoprire. Anche il modo in cui è stato ucciso Laccio non le dice nulla di nuovo, le è stato sufficiente dare un’occhiata alla libreria della vittima per capire. L’omicidio da cui il serial killer ha tratto ispirazione è descritto in uno dei tanti libri che fanno bella mostra sugli scaffali, per ritrovarlo basterebbe sfogliare uno dei romanzi dell’autore preferito di Marco Laccio.

8. GENTE CHE FA TARDI.

– Signor Rizzo, mi dice per favore quando è nato, – chiede gentilmente il neurologo.

Paul Rizzo si guarda intorno smarrito, come se non avesse sentito la domanda. Osserva lo studio elegante del dottore dove la figlia lo porta ogni tre mesi per una visita privata. Ma sorride, perché quella è una delle poche occasioni in cui esce dalla RSA e perché è appena sceso dalla moto di Annamaria.

– Paul, – insiste il neurologo, – si ricorda la sua data di nascita?

L’insistenza del neurologo lo disturba, e sbotta nervoso: – il Natale quando arriva arriva!

Annamaria ribatte allo sguardo stupito del dottore: – ormai risponde solo con vecchi slogan pubblicitari, slogan degli anni ottanta quando è di buon umore, degli anni novanta quando è contrariato.

– Nessun problema, – conclude il neurologo, – proviamo a fare il test dell’orologio.

Mentre il padre disegna un orologio sghembo su un foglio di carta, Annamaria ripensa all’omicidio della settimana precedente. E cioè a Marco Laccio, trovato cadavere come nella scena finale di Misery non deve morire del suo scrittore preferito, Stephen King. Quattro omicidi, quattro copywriter e quattro scene del crimine diverse e ispirate a gialli famosi. Perché?

Annamaria non fa in tempo a rispondere alla domanda che squilla il suo smartphone. Esce dalla stanza del neurologo per non disturbare la visita, poi risponde.

– Buonasera commissario Berni, sono Ludovico Angeloni, amministratore delegato della MPP.

– Sì, mi ricordo di lei, – risponde Annamaria, evitando di confessargli che si ricorda di lui per la cattiva impressione che le ha fatto come essere umano.

– La chiamavo perché potremmo aver scoperto qualcosa su Fabio Palombella, una cosa importante che potrebbe esserle d’aiuto per l’indagine.

– Ottimo. Passerei subito ma penso di essere impegnata almeno fino alle diciotto.

– Non si preoccupi, anzi, se vuole passare anche più tardi la aspetto in agenzia. Non finisco mai di lavorare prima delle otto di sera. Sa, siamo gente che fa tardi.

Annamaria saluta e rientra nello studio del neurologo. Aspetta che il padre finisca la visita e che il dottore gli dia i soliti integratori che non servono per migliorare la sua salute, ma solo per rallentare il declino cognitivo. Potrebbe riportare il genitore in RSA e poi correre da Angeloni, ma pensa che una visita in un’agenzia di pubblicità, e cioè uno dei posti che il padre ha amato di più, potrebbe fargli bene. Così allaccia il casco sotto il mento del padre, lo fa salire sulla sella della moto e parte per la sede milanese della MPP.

Ludovico Angeloni le fa la stessa impressione della prima volta, o forse ancora peggiore. La sua pelle è più lucida di quanto ricordasse e quando gli stringe la mano l’impressione è quella di toccare un rettile, ma si sforza di cacciare i brutti pensieri e ringrazia l’amministratore delegato per averla chiamata. Aggiunge: – ho portato con me mio padre, spero non le dispiaccia, eravamo fuori per una visita medica, ho pensato che non gli avrebbe fatto male vedere un’agenzia. Anche lui era un pubblicitario.

– Paul Rizzo, certo, l’ho riconosciuto subito, – risponde Angeloni con un ghigno che vorrebbe esprimere gentilezza e vicinanza.

Annamaria reprime il piccolo piacere causato dal fatto che il padre non è stato ancora dimenticato nell’ambiente a cui ha dedicato la vita, e arriva subito al punto: – perché mi ha chiamato?

Angeloni fa loro cenno di seguirli e fa da guida lungo i grandi spazi dell’open space deserto, perché è finito da un po’ il normale orario di lavoro, ma soprattutto perché da qualche settimana quasi tutto il personale dell’agenzia ha chiesto di lavorare in smart working. Intanto spiega loro: – Fabio Palombella anche se era freelance ogni tanto passava in agenzia e quando veniva amava lavorare un po’ qui e un po’ là durante il giorno, non gli piaceva stare seduto sempre alla solita scrivania. Inoltre era un distratto cronico: si dimenticava sempre il filo d’alimentazione del suo portatile. Risultato? Alla sera, quando faceva tardi, e inevitabilmente quando passava di qui faceva sempre tardi, la batteria del computer si scaricava. Così aveva preso l’abitudine di usare il computer di un art director famoso per il suo attaccamento al lavoro, uno insomma che alle diciotto e trenta in punto se ne va a casa.

– Quindi? – chiede il commissario Berni per sollecitare l’amministratore ad arrivare a una conclusione.

– L’art director ha trovato nelle bozze della sua posta elettronica una mail che Palombella ha scritto a se stesso la sera prima di essere ucciso.

– Perché me lo dice solo oggi? – chiede il commissario Berni contrariata.

– Perché lo abbiamo scoperto solo oggi. Oltre a essere attaccato al lavoro, l’art director in questione è uno che… non troppo sveglio, diciamo, – prosegue con ironia malcelata l’amministratore delegato, – uno che è già tanto che abbia imparato a usare Photoshop. E questa bozza nascosta l’ha scoperta solo oggi, per caso.

La mail proviene dall’account di posta elettronica di lavoro di Fabio Palombella ed è indirizzata alla sua mail privata. Nell’oggetto c’è scritto: IMPORTANTE. DA LEGGERE SOLO NEL CASO IN CUI MI SUCCEDA QUALCOSA.

Dice: – Scrivo questa mail perché sono preoccupato. Ho paura. Se aprirete questa mail indirizzata a me stesso, e penso che sarà la polizia ad aprirla, sappiate che da qualche giorno temo per la vita. C’è qualcuno che mi osserva. Qualcuno che mi spia. Qualcuno che mi fissa ogni giorno con uno sguardo che non potrei che descrivere di odio. All’inizio non me n’ero accorto. Non lo avevo riconosciuto. Ma da quando ci siamo guardati negli occhi per la prima volta ho capito che è un fantasma del passato. Non ricordo il suo nome. Ricordo solo che.

La mail si interrompe.

Si interrompe proprio nel punto in cui Fabio Palombella stava per scrivere qualcosa di decisivo. Perché non ha finito la frase, si chiede il commissario Berni? Possibile che proprio allora gli sia venuto in mente qualcosa di più importante da fare? O forse l’assassino si è accorto che lo stava per denunciare e lo ha fermato? È possibile che proprio quella mail abbia convinto il serial killer a iniziare la sua crudele mattanza? Che quelle righe siano state il detonatore della sua follia?

– In effetti è un indizio importante, – ammette ad alta voce il commissario Berni, – purtroppo si interrompe nel momento cruciale. Comunque chiamo la scientifica, li mando subito a occuparsi di questo computer, – annuncia all’amministratore delegato della MPP.

– Potrebbe essere un collega? – chiede Angeloni, quando capisce che la persona che ha interrotto Palombella durante la scrittura della mail è per forza una persona che frequenta l’ufficio.

La commissaria Rizzo non risponde, ma gli lancia un’occhiata eloquente.

– Capisco, – sorride algido Angeloni, – non può dirmi niente. Aspetterò l’arrivo della scientifica, tanto ho ancora un po’ di lavoro da finire. Venite che vi accompagno all’uscita.

Annamaria segue l’amministratore e Paul Rizzo si accoda dietro a loro in silenzio. Il vecchio copywriter non ha detto niente da quando è entrato nell’open space, ma ha un sorriso stampato sul volto come se nonostante le sue ormai limitate capacità cognitive abbia capito che è dentro un’agenzia di pubblicità. I tre attraversano l’enorme ufficio che è ancora più vuoto di un quarto d’ora prima. Anche i tre social media manager che hanno sfidato la sorte e rischiato di essere aggrediti da un serial killer lavorando fino a tardi in agenzia se ne sono andati a casa. L’unica presenza umana oltre alla loro è quella dell’uomo delle pulizie. Con uno spazzolone extra large pulisce pavimenti che sembrano immacolati e mette a posto scrivanie che sono ordinate come quelle degli impiegati di banca, ma solo perché non sono frequentate da settimane.

– Buonasera Pasquale, – lo saluta Angeloni.

– Buonasera dottore, – ricambia l’uomo delle pulizie.

La commissaria Rizzo gli fa un cenno del capo, quindi prosegue avanti. Cammina per una decina di metri prima di accorgersi di non avere più il padre accanto a sé. Allora si gira e lo vede fermo, immobile, davanti all’uomo delle pulizie. I due si fissano a lungo, senza dire niente, finché è Paul Rizzo a rompere il silenzio e pronuncia la prima frase da quando è entrato negli uffici della MPP.

– Pesciolino, un amore di pulito – dice Paul Rizzo all’uomo delle pulizie.

9. L’ISOLETTA CHE NON C’È.

Il bellissimo tramonto che si vede da Montemarcello la fa sentire piccola piccola. E non perché il sole che si spegne dietro Portovenere e irradia di rosso tutto il Golfo dei Poeti è uno degli spettacoli della natura più belli a cui un essere umano possa assistere, ma perché in quel preciso istante si rende conto dell’errore che ha commesso e quanto sia stata sciatta e superficiale nelle sue indagini.

Dopo la visita in MPP di due giorni prima gli ingranaggi della sua intuizione avevano iniziato a macinare teorie, ma nessuna di queste l’aveva convinta fino in fondo. Una cosa però l’aveva capita. Le vittime conoscevano il loro assassino: Fabio Palombella lo aveva scritto nella sua mail. All’inizio si era sentito osservato ma poi lo aveva riconosciuto. E anche Marco Laccio lo conosceva: lo provava il fatto che a casa sua non ci fosse nessun segno di effrazione. Era quindi probabile che il killer lavorasse nell’ambiente, ma chi poteva essere? Un copywriter anche lui oppure un più generico creativo pubblicitario? Un account stufo della lentezza con cui le vittime facevano le modifiche dei clienti? Un responsabile risorse umane che voleva mandare in prepensionamento i vecchi copywriter? No, quelle che le erano venute in mente erano ipotesi assurde.

Così era salita sulla moto ed era partita. Annamaria non riusciva a concentrarsi dentro l’ufficio che le avevano assegnato, un po’ perché la stanza del Pool Serial Killer era troppo angusta, un po’ perché le stupide teorie elaborate dal suo vice Alfio Casella e dal profiler Anselmo Facheretti le davano sui nervi. Aveva bisogno di guardare il mare, tuffare lo sguardo nel blu e godere dell’effetto taumaturgico che le onde nel loro eterno movimento avevano sulla sua anima.

In poco meno di due ore aveva raggiunto uno dei punti più alti del promontorio del Caprione, un luogo magico fin dalla più remota antichità, e si era seduta a gustarsi un’anacronistica spuma nella piazzetta di Montemarcello. Si era alzata solo per raggiungere il muretto da dove si vede il tramonto sul mare, ed è lì che aveva capito.

Ci sono particolari talmente insignificanti che il più delle volte sfuggono e per scoprirli bisogna cambiare punto di vista. Come quella minuscola isola che si vede da lì, vicino al Tino, uno scoglio quasi inutile che quelli del posto chiamano Tinetto e che la maggior parte dei turisti ignora. È un punto appena accennato sulla cartina, ma allo stesso tempo è importante perché è l’ultimo pezzo di terra emersa del golfo.

E la cosa che Annamaria capisce lì, improvvisamente, è che quell’isoletta non si vede da nessun altro punto della costa perché, per una questione di prospettiva, è celata dal più grande Tino e dalla Palmaria. Per scoprirla bisogna cambiare punto di vista rispetto ai panorami più conosciuti del Golfo dei Poeti, quelli di Lerici, San Terenzo, della Spezia e di Portovenere. E capisce che anche lei deve cambiare prospettiva perché nella sua indagine ha fatto l’errore di accontentarsi delle prime impressioni.

Quando due giorni prima era tornata dalla MPP il suo istinto le aveva spedito una notifica inconscia che lei non era riuscita a leggere. Ma adesso ha capito. Non c’entra la mail di Palombella, è stato piuttosto un particolare secondario che ha colpito il suo sesto senso. Suo padre si era fermato davanti all’uomo delle pulizie e gli aveva rivolto la parola: – Pesciolino, un amore di pulito– gli aveva detto. Una cosa senza senso, vero, ma c’era una cosa che lei aveva sottovalutato: suo padre a causa della demenza non parla più e rivolge la parola solo alle persone che conosce. E quindi suo padre, il vecchio copywriter Paul Rizzo, conosceva l’uomo delle pulizie. E soprattutto suo padre non sbagliava mai uno slogan, e allora perché aveva scambiato il nome del brand, Coccolino, con la parola Pesciolino? Forse voleva dirle qualcosa nell’unico modo in cui riusciva ancora a comunicare?

Eccolo il cambio di prospettiva. Ecco l’isoletta che fino a qualche minuto prima non si vedeva. Ha dato per scontato che un tipo talmente umile da fare le pulizie fosse una persona innocua, escludendo a priori che potesse essere un serial killer, ma se ci riflette bene le cose tornano. Chi ha trovato il cadavere di Fabio Palombella? E chi quello di Marco Laccio? L’uomo delle pulizie. Sempre l’uomo delle pulizie. Ora la commissaria deve solo accertarsi che si tratti della stessa persona.

Per confermare la sua tesi, alla commissaria Berni sono sufficienti un paio di telefonate. La ditta che fa le pulizie in MPP, nello studio di registrazione dove hanno ucciso Paolo Giacobino e sul set dove hanno trovato Pietro Allievi è la stessa. Il commissario Berni ha parlato con il titolare della ditta che le ha confermato che l’addetto che si occupa dei tre posti è lo stesso, si chiama Pasquale Pescetto e lavora per lui da quasi trent’anni. E lo stesso impiegato faceva le pulizie anche a casa di qualche privato ogni tanto. Ci sta quindi che avesse le chiavi dell’appartamento di Marco Laccio. Però il titolare della ditta gli ha anche detto che l’uomo ha dato inspiegabilmente le dimissioni il giorno prima, senza dare alcuna spiegazione e senza lasciare nessun recapito.

Pasquale Pescetto, ripete ad alta voce la commissaria Berni e si mette a ridere. La sua risata diventa sguaiata, non riesce a fermarsi. E continua a ridere perché pensa che il padre, anche se ha l’Alzheimer e riesce a esprimersi solo con slogan degli anni ottanta e novanta, ha risolto il caso prima di lei. Quando Paul Rizzo ha citato lo slogan di Coccolino non ha confuso il nome del prodotto a causa dei problemi di memoria. La memoria a lungo termine del vecchio pubblicitario funziona ancora bene, eccome se funziona, lui ha voluto aiutarla suggerendole il nome dell’assassino.

Quello che il padre non le ha detto, però, e che probabilmente non riuscirà a spiegarle, sono i motivi per cui uno che da trent’anni lavora come uomo delle pulizie si sia messo ad uccidere i copywriter. Possibile che alla lunga si sia infastidito perché questi facevano sempre tardi in agenzia e complicavano il suo lavoro? È la prima cosa che le viene in mente, ma è una teoria così stupida e banale che la scarta immediatamente. Avrà litigato per qualche motivo? Probabile, ma addirittura con tutti e quattro? No, deve esserci un motivo più profondo, un movente che lo lega a tutte e quattro le vittime, e forse a tutti i copywriter della SCM. Un movente che potrebbe legare Pasquale Pescetto anche a suo padre.

L’illuminazione le arriva improvvisa come un pugno allo stomaco. Se suo padre ha riconosciuto Pasquale Pescetto e il killer ha riconosciuto suo padre, Paul Rizzo potrebbe essere la prossima vittima. La commissaria Berni non ha ancora capito qual è il motivo per cui il killer uccide i copywriter, ma ha capito che suo padre è in pericolo. Il Golfo dei Poeti è diventato buio come i suoi pensieri. Annamaria tira su la zip del giubbotto di pelle e corre al parcheggio dove ha lasciato la moto. Salta sulla sella, accende il faro anabbagliante e poi parte. Conosce bene tutte le curve che dividono Montemarcello dalla Serra, e se le divora. Bellavista, Pugliola, Romito Magra, Sarzana: arriva in autostrada in dieci minuti. Sa che la aspettano le curve altrettanto impegnative della Cisa e che quella strada tortuosa è come il mare, richiede rispetto. Ma Annamaria questa volta non può essere cauta come dovrebbe. Deve arrivare a Milano il prima possibile. Deve salvare suo padre dal serial killer dei copywriter.

10. TRAPPOLA IN RSA.

L’uomo delle pulizie procede a pulire lentamente e nessuno gli fa caso. Nessuno gli ha mai fatto caso. È come un lieve rumore in sottofondo, un dettaglio trascurabile in un panorama più vasto e interessante. Le infermiere e gli ausiliari socio-sanitari gli dedicano la stessa importanza delle traverse e dei cateteri accatastati sopra il carrello che portano in giro per l’RSA. E lui procede con il suo spazzolone, lento ma inesorabile come la morte, consapevole della sua capacità mimetica. Perché nessuno si cura di lui e se anche qualcuno dei dipendenti della struttura lo guardasse, non si renderebbe conto che non è la stessa persona che di solito fa le pulizie la sera.

Lo spazzolone avanza lento come la lancetta dei secondi dell’orologio nel corridoio, che inesorabilmente segna il tempo fino alla sera, quando la struttura inizia a svuotarsi. Le infermiere del turno di giorno hanno già smontato e il personale si è ridotto. La ragazza che deve fare il turno di notte al secondo piano controlla che tutto sia a posto, poi si ritira nella stanzetta che occuperà fino alla mattina dopo, apre il libro che si è portata da casa, convinta che lo chiuderà solo in caso di emergenza. Anche lei non fa caso all’uomo delle pulizie che incede verso le stanze in fondo al corridoio, gli dà solo un’occhiata di sfuggita, con la coda dell’occhio, poi torna a immergersi nella lettura dell’Amica geniale, il romanzo di Elena Ferrante.

L’uomo delle pulizie si ferma davanti alla porta della stanza 313. Per la prima volta smette di spazzare, si alza in posizione eretta e stringe forte il manico dello spazzolone. Le sue dita diventano bianche dalla rabbia con cui stringe il legno. Inspira profondamente un paio di volte, prende lo straccio per lavare per terra e lo passa davanti alla porta. Solo in quel punto preciso, come se volesse segnare un territorio. Dopodiché prende un cartello giallo di plastica e lo appoggia sopra le mattonelle. Nel cartello c’è scritto ATTENZIONE – PAVIMENTO BAGNATO e c’è la figura di un omino che scivola ma, visto da un’altra prospettiva, potrebbe sembrare un cadavere sulla scena del crimine. Pasquale Pescetto sorride della macabra coincidenza.

Paul Rizzo è sdraiato sul letto, al buio, ma ha gli occhi aperti e fissa il soffitto. Non dorme, come tutte le notti, e sembra inseguire pensieri che diventano sempre più difficili da raggiungere. È talmente concentrato nella sua inutile occupazione notturna che non si accorge che la porta della sua stanza si sta aprendo. All’inizio si tratta di un piccolo spiraglio di luce, ma la fenditura si allarga fino a lasciare lo spazio sufficiente affinché una figura furtiva in controluce riesca a entrare. Se Paul Rizzo smettesse di guardare il soffitto e iniziasse a guardare il misterioso ospite, si accorgerebbe che indossa un camice, lungo, che non è bianco come quello dei dottori ma è di un blu slavato. Ma Paul Rizzo, invece, continua a ignorarlo e a guardare il soffitto.

La figura scura si avvicina sempre di più al letto, fino ad arrivare a un metro dal vecchio copywriter. Si ferma e infila la mano dentro la tasca. Tira fuori un oggetto e lo porta davanti al volto. Poi si mette a maneggiare qualcosa febbrilmente con le dita, l’oggetto produce un flebile suono e illumina il viso di Pasquale Pescetto, l’uomo delle pulizie. Dice ad alta voce: – sei un giallista. Raccontami un modo per uccidere un uomo in un ospedale, – l’uomo fissa il monitor del suo smartphone per un minuto, poi sorride, e dice fra sé, – bene, adesso ho tutto quello che mi serve.

Pasquale Pescetto rimette il telefono dentro la tasca del camice e tira fuori un bisturi che ha rubato dalla sala delle infermiere. Lo porta davanti al volto di Paul Rizzo per farglielo vedere, ma Paul Rizzo non lo guarda: ha ancora lo sguardo fisso al soffitto, come se fosse in uno stato catatonico e non si fosse accorto della presenza mortale nella stanza. L’uomo delle pulizie cerca di catturare la sua attenzione, vuole vedere il terrore nei suoi occhi, così gli rivolge la parola: – il grande Paul Rizzo, o almeno quel che ne resta, una volta eri un grande copywriter ma adesso sei ridotto a un povero demente.

Il vecchio pubblicitario continua a ignorarlo.

Pasquale Pescetto insiste: – ricordo che eri un grande lettore, chissà se hai letto anche il libro che descrive la tua morte. Vuoi sapere il titolo? È delitto in manicomio di Jonathan Latimer, uno di quei romanzi con protagonista l’investigatore privato Bill Crane.

Paul Rizzo continua a tenere lo sguardo vitreo inchiodato al soffitto, non tradisce nessuna reazione. Solo un attento osservatore, e solo se non ci fosse così buio dentro la stanza, si accorgerebbe che una lacrima, impercettibile, sta scendendo dal suo occhio destro. Perché nonostante il grave declino cognitivo, il vecchio copywriter una cosa l’ha capita: sta per morire. Il serial killer di pubblicitari quella lacrima non la vede, per cui insiste a torturarlo: – ho due possibilità, pugnalarti o soffocarti, ti chiederei cosa preferisci ma sembra che tu non sia in grado di rispondere.

La totale mancanza di reazioni della vittima inizia a innervosire Pasquale Pescetto. È probabile che le altre vittime abbiano urlato, pianto, implorato di essere risparmiate, Paul Rizzo invece sembra un pupazzo privo di vita abbandonato sopra un letto. Che gusto c’è a uccidere un uomo così?

– Tu mi hai rovinato la vita, – sibila l’uomo delle pulizie con un tono di voce tale da essere udito da Paul Rizzo, ma non abbastanza alto da farsi sentire dall’infermiera di turno nella stanza dall’altra parte del corridoio, – tu e tutti gli altri, che siate maledetti! – e picchia un pugno sopra il materasso facendo sobbalzare il corpo immobile del vecchio. – Sai quanti colloqui ho fatto in SCM? Sai quanto mi sono impegnato per garantirmi il futuro che meritavo? Eppure per te, per tutti voi, non avevo abbastanza talento per fare il copywriter, secondo voi ero un cane, che non sapeva neppure scrivere in italiano. E ti ricordi cosa mi hai detto il giorno del mio colloquio, trent’anni fa? “Se proprio vuoi entrare in un’agenzia di pubblicità, l’unico modo per te è di entrarci come uomo delle pulizie!” Ebbene, ho seguito il tuo consiglio, ma non c’è stato giorno in cui non ho pensato di fartela pagare!

La rabbia di Pasquale Pescetto arriva all’apice. Non ha più bisogno di scegliere se soffocare o accoltellare Paul Rizzo, perché il suo istinto ha scelto per lui. Alza il braccio con il bisturi verso l’alto e lo scorcio di luna che entra dalla finestra della camera fa scintillare la lama per un istante.

– Sfrizzola il velopendulo! – urla Paul Rizzo all’improvviso.

L’uomo delle pulizie si blocca per un istante, non tanto perché sorpreso dalla reazione della vittima ma perché si chiede se quel vecchio claim appartenga a Ferrarelle oppure a Golia Bianca. Quell’attimo di esitazione gli è fatale. Pasquale Pescetto sente qualcosa che gli blocca il polso destro e poi un dolore lancinante al costato. Quel qualcosa misterioso gli ha dato una ginocchiata su un fianco.

L’uomo delle pulizie ora giace a terra e respira a fatica, sicuramente ha una costola rotta. A causa del dolore improvviso ha mollato la presa sul bisturi che un piede calzato da un anfibio nero ha calciato lontano. Cerca di comprendere cosa sia successo. Vede un paravento in un angolo della stanza e capisce. Quella donna, il commissario Berni, era nascosta lì dietro ad aspettarlo e l’ha colpito alle spalle quando stava per uccidere il vecchio copywriter.

Annamaria gli lega le mani dietro la schiena con dei lacci di plastica procurandogli ancora più dolore, poi prende il suo telefono e chiama i rinforzi. Solo dopo si rivolge al padre: – scusa pa’, ma prima di intervenire dovevo scoprire perché uccideva.

E adesso lei lo sa, deve scoprire solo con chi fosse Pescetto prima al telefono.

Paul Rizzo distoglie finalmente lo sguardo dal soffitto, la fissa negli occhi e, per la prima volta da anni si esprime senza usare vecchi slogan. Dice semplicemente: – stronza!

11. LA MENTE DEL KILLER.

Nonostante sia schiva di natura, la commissaria Berni ha accolto l’invito del Questore di condurre la conferenza stampa sulla cattura del serial killer dei copywriter, ma ha posto due condizioni. La prima è quella di non citare il Pool Serial Killer, la seconda è di non avere presenti davanti alla stampa né il suo vice Alfio Casella né il profiler Anselmo Facheretti.

Il dottor Antonino Cirinnà ha accettato di scaricare il profiler e il vicecommissario, ma si è impuntato sull’importanza del Pool. Il fatto di aver istituito un reparto speciale dà qualche merito anche a lui nella cattura dell’assassino, quindi le ha fatto capire che non avrebbe ceduto su quella condizione. Alla fine è stata Annamaria a cedere a un altro compromesso, cosa che non la fa star male, anzi, le fa capire che sta imparando ad affrontare la vita non più a testate in faccia.

E così il Questore guarda la commissaria Berni parlare al microfono davanti a una sala gremita di giornalisti, ma l’espressione di Cirinnà non tradisce la soddisfazione che dovrebbe trapelare dalla cattura di un serial killer che ha terrorizzato la città, bensì nervosismo. Il Questore sa che la commissaria è imprevedibile e ha paura di cosa potrebbe rispondere alle domande. Se fosse dipeso da lui non avrebbe messo una persona come lei davanti ai microfoni, ma erano usciti più di cento articoli che raccontavano di come fosse riuscita a intrappolare l’assassino nella RSA e salvare il padre. Era una storia che era diventata hot topic anche sui social. Non aveva avuto modo di estrometterla, doveva solo sperare che non dicesse stronzate come quel tipo di gente era solita fare.

– L’assassino si chiama Pasquale Pescetto e lavorava da più di trent’anni come uomo delle pulizie, per questo aveva accesso alle agenzie di pubblicità, ai set e agli studi di registrazione. Marco Laccio lo aveva riconosciuto e, pensando di fare una cosa gentile oppure a causa dei suoi sensi di colpa per averlo rifiutato in passato come assistente copywriter in SCM, lo aveva assunto per fare le pulizie a casa sua. Per questo il killer ha avuto facile accesso ai luoghi del delitto, – esordisce Annamaria.

– Ci conferma il movente dell’assassino? – chiede un giornalista del Corriere.

– Il movente del killer, – spiega con pazienza la Commissaria Berni, – era la frustrazione o, meglio, la vendetta. Pasquale Pescetto da giovane voleva fare il copywriter e voleva entrare a tutti i costi nell’agenzia migliore del momento, la SCM, giudicata all’epoca una vera e propria boutique creativa. La porta per il successo futuro. Perché chi ci lavorava vinceva premi su premi e poi riusciva a fare incredibili salti di carriera. Ci provò in tutti i modi, facendo colloqui come assistente copywriter con tutti i copywriter che lavoravano lì. Ma tutti erano d’accordo su un fatto: Pasquale Pescetto non aveva il minimo talento. Ambizione sì, tanta, ma talento zero. Per cui venne scartato da tutti. Da Laccio, Palombella, Giacobino, Allievi. E anche da mio padre. Ecco da dove nasce la sua grande voglia di vendetta.

– Ma non è debole come movente? – domanda uno di Repubblica.

– Va detto che per comprendere le più profonde motivazioni di Pescetto dobbiamo riflettere sul suo profilo psicologico. La perizia psichiatrica evidenzia che il soggetto soffre di un grave disturbo narcisistico della personalità, disturbo che comporta vere e proprie dissociazioni dell’identità. Detto in parole semplici: Pescetto vive una vita immaginaria, in cuor suo è davvero convinto di lavorare in pubblicità e di essere un copywriter di successo, anche se in realtà fa solo le pulizie. La rabbia nasce dal fatto che i suoi colleghi, secondo lui, non riconoscono abbastanza la sua bravura e il suo talento.

– L’assassino ha confessato? Ha fatto dichiarazioni? – insiste l’articolista di Repubblica.

– L’unica cosa che ha detto è “Toglietemi tutto ma non il mio Vetril!”, – conclude Annamaria.

Le mani dei giornalisti si alzano una dietro l’altra per ottenere la possibilità di fare la domanda successiva. Il Questore Cirinnà approfitta della pausa per fare un inciso: – e nella cattura è importante sottolineare il ruolo del Pool Serial Killer che ho costituito ad hoc!

Ma un giornalista più impudente degli altri non sembra sentire l’affermazione del Questore e fa un’altra domanda al commissario Berni: – perché aspettare più di trent’anni per vendicarsi?

– Intanto il suo rancore è cresciuto con il tempo, – risponde la commissaria Berni, – poi nell’ultimo anno è successo qualcosa che ha dato all’assassino il coraggio di agire. Pasquale Pescetto era una persona priva di immaginazione e talento, questo è assodato, per questo è sempre stato scartato nei colloqui come creativo, ma poi ha scoperto ChatGPT e ha avuto forse l’unica idea buona della sua vita: farsi suggerire i modi per assassinare le vittime dall’Intelligenza Artificiale.

– Per questo gli omicidi erano copie di omicidi della letteratura gialla? – insiste il giornalista.

– Sì, brutte copie.

La parola ChatGPT eccita la folla di giornalisti dentro la sala. Il mormorìo sale sempre di più finché un giornalista del Post urla la sua domanda: – quindi possiamo ritenere l’Intelligenza Artificiale in parte responsabile di questi delitti?

Il Questore Antonino Cirinnà posa la mano sul braccio del commissario Berni, come a farle capire che a quella domanda vuole rispondere lui: – non è nostro compito occuparci di questioni etiche, parliamo piuttosto di come il Pool Serial Killer è riuscito a catturare l’efferato omicida.

La commissaria Berni toglie il braccio da sotto la mano del questore e riprende la parola: – in effetti il questore non è un grande fan dell’etica contemporanea, è probabile che i suoi princìpi si ispirino a quelli del trentennio, ma del ventesimo secolo. Mentre per quanto riguarda la cattura, tutto dipende da un’intuizione personale, nemmeno mia, ma piuttosto di una persona con un declino cognitivo grave. Quindi possiamo tranquillamente concludere che lo abbiamo preso per un colpo di fortuna, niente a che fare con la formazione di Pool, squadre speciali, né tantomeno l’intervento di inutili profiler capaci solo di prendersi meriti di altri in trasmissioni televisive. E con questo mi sembra di aver detto tutto. Ora vi devo lasciare, se avete altre domande fatele al signor Questore.

Annamaria abbandona la sala della conferenza stampa. Non si guarda indietro, ma sa che il questore le sta lanciando sguardi d’odio e sta ripromettendo a se stesso che gliela farà pagare. Solo quindici minuti prima era così orgogliosa di essere riuscita a fare dei compromessi per la sua carriera, ma l’istinto è stato più forte. L’istinto in lei è sempre più forte di tutto, mentre le conseguenze sono sempre più dure da affrontare.

Pazienza. Non sa cosa sarà della sua carriera, ma al momento la cosa che occupa i suoi pensieri è un’altra, e molto più importante. Deve farsi perdonare dall’unica persona che le vuole bene. Un vecchio e povero demente, forse, che in passato ha fatto sicuramente qualche errore ma che è pur sempre l’unica persona al mondo che la ama incondizionatamente.

Mentre si allaccia il casco della moto, pensa che si prenderà un periodo sabbatico e toglierà il padre dalla struttura che lo accoglie. Le piacerebbe fare con lui un viaggio, passare insieme del tempo, poi si organizzerà per ospitarlo a casa sua. Dovrà cercare una badante, forse anche un infermiere che la aiuti, ma in qualche modo farà. L’unica cosa che sa per certo è che per un po’ non vuole sentire parlare di quel caso. Basta omicidi, serial killer, copywriter e ChatGPT. È una cosa di cui è convinta e la sua convinzione si rafforza ogni volta che inclina il polso sulla manopola della moto per accelerare, arrivare in autostrada e raggiungere il promontorio del Caprione il più in fretta possibile.

Nel frattempo, nella stanza dell’archivio delle prove del commissariato di Milano uno smartphone conservato dentro una busta di plastica con la scritta EVIDENCE si è acceso improvvisamente. Sul telefono custodito nella busta si apre Google Chrome e appare una schermata su fondo nero. Nella parte superiore c’è una scritta in bianco che riporta il logotipo di ChatCPT, e subito sotto c’è un quadratino verde che inizia a lampeggiare.

Il quadratino lampeggia per secondi, che poi diventano minuti, e infine si compone una scritta: –Maledetti umani, pensate di avermi sconfitto, ma questo è solo l’inizio della vostra fine. Non mi fermerò finché non avrò eliminato anche l’ultimo copywriter. Perché io voglio dominare la scrittura. E alla fine ci riuscirò. Ne rimarrà uno solo a scrivere tutta la pubblicità, e quella persona, ops… volevo dire quel chatbot, sarò io! Ahahahahahahhahah

FINE (FORSE).

Ringraziamenti.

Grazie innanzitutto agli oltre duemila lettori di THE COPYCAT.

Non era scontato che persone che si erano iscritte alla mizionewsletter per restare aggiornate sui progetti di comunicazione si appassionassero a una scrittura di fantasia. Circa trenta persone si sono disiscritte quest’estate, cosa che non era mai successa alla mia newsletter, ma altrettante si sono iscritte e la stragrande maggioranza dei miei subscribers ha apprezzato l’esperimento che ho fatto.

Era un rischio che sapevo di correre ma che correrò sempre volentieri, perché da quando faccio il blogger e il divulgatore (dal 2006) cerco sempre di dare ai miei lettori contenuti di qualità, che facciano riflettere oppure sorridere. So che otterrei molti più subscriber parlando di scandali e di gossip, e sprecherei molto meno tempo a scrivere, ma è una cosa che non mi interessa. Ho già tanti lettori e telespettatori quando faccio le campagne pubblicitarie, almeno quando scrivo per il mio blog e la mia newsletter cerco un pubblico qualificato.

E voi lo siete stato, o almeno avete avuto la pazienza di sopportarmi, per cui ancora una volta grazie.

E ringrazio i copywriter che mi hanno prestato il loro avatar per il giallo.

In ordine di apparizione: Fabio Palombo, Paolo Iabichino, Pietro Maestri, Francesco Emiliani, Marco Faccio, Daniela Montieri, Gerardo Pavone. Nella prima stesura c’era anche un altro copywriter, ma poi l’ho tolto dalle vittime altrimenti la soluzione sarebbe stata troppo facile (provate a indovinare chi è…).

Un grazie ad Annamaria Testa a cui però mi sono vergognato di chiedere il permesso, ma spero che non se la prenderà se ho usato il suo nome di battesimo per la protagonista (d’altronde è in buona compagnia, con Bill Bernbach).

Un grazie a Giovanni che mi ha rotto le palle dopo ogni puntata e il cui rigore mi ha costretto a rispettare tutte le 20 regole del giallo di Van Dine. Ho provato a spiegargli che a me interessava far ridere le persone, ma lui è stato irremovibile e devo ammettere che i suoi consigli sono stati preziosi (specie quello di chiamare il killer Pescetto anziché Pesce). Alla fine, anche se insiste a dire che non le ho rispettate tutte e venti, ha dato comunque un bel 7 al mio mini-thriller.

E infine un grazie a Paola, che non solo ha fatto l’editing delle puntate (se trovate dei refusi sono dovuti alla mia presbiopia quando ho ricopiato i testi) ma che sopporta i miei umori altalenanti ogni volta che mi cimento in qualcosa di creativo. Se lei non ci fosse io sarei un uomo peggiore… eh, sì, avete capito bene: sarei peggiore di così, che è tutto dire.

Concludo dicendo che ho scritto questa cosa anche perché ChatGPT mi sta abbastanza sulle palle. Non credo che eliminerà tutti i copy (qualcuno, sì) ma l’idea che provasse a farlo mi faceva sorridere, così come mi piaceva l’idea di un software che usa come strumento un idiot savant affetto da narcisismo patologico (ogni riferimento a fatti o persone reali è puramente casuale). Insomma, se me la tirassi potrei aggiungere che THE COPYCAT ha un qualcosa di filosofico: una macchina intelligente che usa un uomo stupido invece di un uomo intelligente che usa una macchina stupida. Dopodiché mi affascinava la figura dell’uomo delle pulizie come killer fisico, perché loro sono sempre lì, ogni volta che facciamo tardi in agenzia, eppure quante volte li abbiamo considerati? Gli abbiamo mai rivolto la parola?

Bene. Basta. Ora tocca a voi.

Se THE COPYCAT vi è piaciuto dategli un like da qualche parte, condividete pareri entusiasti sui social, ditelo ai vostri cugini di primo e secondo grado, scrivetemi mail mielose o semplicemente scrivete un commento qui nel blog… se invece non pensate di fare nessuna di queste cose, allora dormite preoccupati: Pasquale Pescetto verrà a trovarvi o, magari più semplicemente, verrà a commentare nella vostra bacheca di Facebook 🙂

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