Non dite a mia madre che faccio il creator… lei mi crede creativo in un’agenzia di pubblicità.

Nel 1979 Jacques Séguéla, uno dei più famosi pubblicitari francesi di sempre, pubblica il suo libro più celebre: Ne dites pas à ma mère que je suis dan la publicité… Elle me croit pianiste dans un bordel, tradotto in italiano nel 1986 da Paolo Grimaldi e pubblicato da Lupetti con il titolo Non dite a mia made che faccio il pubblicitario…. Lei mi crede pianista in un bordello.

Jacque Séguéla è un personaggio di altri tempi, a dir poco irrequieto. A 25 anni si laurea in farmacia ma poi molla tutto e fa il primo giro del mondo con un’automobile francese. In seguito si occupa di giornalismo e poi fa il produttore televisivo prima di aprire la sua prima agenzia di pubblicità, a 35 anni. Séguéla ha realizzato campagne indimenticabili per Carrefour, Louis Vuitton, Citroën, Dunlop, Carte Noir, Woolite ma, soprattutto, ha ideato la migliore campagna di propaganda politica di sempre, la Forza Tranquilla, slogan con cui fece eleggere François Mitterand all’Eliseo.

La prefazione del libro riporta: (…) Prima di Séguéla il pubblicitario era considerato un tecnico, un “serio professionista”, mentre dopo di lui acquista il rilievo di nuova e imprevedibile figura dell’attuale panorama culturale. Un “terminale nervoso” che sente le vibrazioni di una società che comunica, vive di immagini e di segni. Un poeta, a suo modo, che dà alle merci la valenza dei sogni.

Lui stesso scrive chiaramente: (..) Questo libro è stato scritto da Ségué per Séguéla. È un libro di memorie. In memoria di me stesso. (…) A forza di fare la gloria di caffè, degli olii, delle automobili o dei detersivi, i creatori di celebrità sono frustrati dal fatto di essere meno conosciuti dei prodotti che lanciano. Vi parlerò dunque del prodotto che conosco meglio: me stesso.

Jacques Séguéla è dunque la prima Pop Star della pubblicità mondiale, condizione di cui il creativo francese era consapevole, così come era consapevole del fatto che la sua fortuna derivasse dalle tante e variegate esperienze fatte prima e fuori dalla pubblicità.

Ma le Pop Star creative non sono state un’esclusiva della pubblicità francese. Quattro anni prima dell’uscita del libro di Séguéla, nel 1975, comincia la sua carriera come copywriter colui che, secondo me, è il più grande genio della pubblicità italiana: Maurizio D’Adda.

Ecco come lo ricorda il fratello Mario D’Adda nel libro Andiamo verso il moderno. Tutti vogliono un cane di Daniela Salina: (…) “Mio fratello (Maurizio D’Adda ndr) scivolò nel lavoro di copywriting, divertendosi con le parole e affrontando le poche regole necessarie con estrema disinvoltura. Per lui era un gioco entusiasmante perché era solo uno dei suoi interessi. Infatti, contemporaneamente, faceva le sue serate con i CACHI D’ASPA, dove l’organizzazione del gruppo, con tutti i suoi aspetti pratici, rendeva il lavoro faticoso e, stranamente, più impegnativo della sua esperienza in pubblicità (…) La professione del copywriter fu una scelta felice per Maurizio, perché si adattava al suo stile d’ironia, con un’ombra d’ingenuità e un pizzico di paradosso. Il lavoro fluiva spontaneo e di veloce realizzazione. Quest’atteggiamento gli permetteva di avere tempo per dedicarsi anche ad altri interessi, una formula che alleggeriva la tensione e dava diverse priorità alle sue aspettative”.

Chi mi conosce bene sa che Maurizio D’Adda era il mio mito, anche se l’ho incrociato poche volte. Era la mia figura di riferimento, il mio mentore a distanza. Lo ammiravo perché era un eclettico. Soprattutto perché era un creativo nel senso più ampio del termine. Perché non si accontentava di scrivere per la pubblicità. Perché ha iniziato dal cabaret. Perché ha scritto la canzone dello Zecchino d’Oro Quarantaquattro Gatti. E perché nel 1997, quando era all’apice della carriera, fu chiamato da Piero Chiambretti a fare l’autore al Festival di Sanremo insieme a Gianpietro Vigorelli e coniò l’indimenticabile slogan Comunque vada, sarà un successo.

Sì, slogan. Non claimline e neppure payoff, ma l’anacronistico termine slogan. Perché lui era profondamente legato alla pubblicità leggera e scanzonata degli anni ottanta. “Tu sei uno sloganaro come me,” mi disse quando mi chiamò come freelance in Young&Rubicam per portare a casa la difficilissima campagna Simmenthal dopo il morbo della Mucca Pazza. E dopo più di vent’anni rimane il complimento che ho ricevuto in carriera di cui vado più orgoglioso.

I pubblicitari di un tempo, le grandi Pop Star, quelli che hanno fatto la storia della nostra professione, non erano solo pubblicitari, erano molto altro. Un altro esempio è quello di Enzo Baldoni che si divertiva a chiamarmi il camallo perché la cosa che trovava più interessante di me è che avessi lavorato al porto della Spezia per pagarmi l’Accademia di Comunicazione.

Enzo era un appassionato di fumetti e aveva tradotto le strisce di Gérard Lauzier, Garry Trudeau e Frank Miller. Gli piaceva tantissimo paciugare con il digital ancora prima che esistessero i social network. Ha aperto i primi blog in Italia e ha scritto le prime newsletter in assoluto.

Gli piaceva fare anche l’inviato speciale nelle zone più pericolose del pianeta, passione per cui ha perso la vita in Iraq. Enzo Baldoni, infatti, era talmente eclettico che la sua condanna a morte, probabilmente, fu dovuta al fatto che i militanti dall’Esercito Islamico dell’Iraq non si spiegarono la sua presenza in quell’angolo remoto di mondo e lo scambiarono per un agente segreto.

In Italia la grande rivoluzione della pubblicità arriva proprio negli anni ottanta. In quegli anni Carosello, la forma più originale di reclame italiana, si sta avviando stancamente alla fine e i fermenti degli anni ’70 hanno già preparato il terreno all’innovazione, accantonando anche tutte le vecchie inibizioni. È nel 1973 che esce Jesus Jeans (copywriter Emanuele Pirella, Art director Michele Goettsche, fotografo Oliviero Toscani), ma è solo con l’arrivo delle televisioni commerciali che cambia tutto. Nasce la pubblicità moderna, con il taglio a 30 secondi degli spot, ma soprattutto arrivano i grandi investimenti.

I pubblicitari finiscono sulle copertine dei giornali ed escono libri importanti per il settore. Le uova di Woody Allen, edito da Bompiani (1988) in cui Gavino Sanna, il grande guru pubblicitario di quegli anni, racconta la sua esperienza negli Stati Uniti prima di approdare alla Young&Rubicam di Milano. La parola immaginata (Pratiche Editrice 1988) in cui Annamaria Testa parla delle sue campagne ma regala anche un prezioso manuale per gli aspiranti copywriter.

Il successo del mestiere di pubblicitario è tale che in quegli anni tutti vogliono fare i creativi. E così si moltiplicano le scuole di comunicazione e i pubblicitari iniziano ad autogenerarsi, cosa di per sé buona, perché i nuovi pubblicitari studiano la pubblicità e arrivano in agenzia già preparati: i creativi dei primi anni novanta conoscono già tutti i trucchi del mestiere e le campagne più famose, sanno cos’è un brain storming e sono pronti a lavorare fin dal primo giorno.

È in quegli anni che nasce il refrain “facciamo il mestiere più bello del mondo” che assomiglia a un altro motto di quegli anni “abbiamo il campionato di calcio più bello del mondo”. Peccato che la nuova generazione di creativi non si porti dietro il bagaglio esperienziale delle vecchie generazioni. Gente di grande talento, ex cabarettisti, o ex fotografi di nera, o ancora ex sessantottini che alla fine avevano scelto la pubblicità solo per un fatto molto pratico: si guadagnava bene.

La ricchezza culturale di qualsiasi posto dipende dalle contaminazioni. Ecco perché le città di porto sono più sporche e cattive ma sono più variegate e interessanti di quelle dell’Alto Adige. Lo stesso vale per gli ambienti di lavoro: un settore che si nutre solo di pubblicità, che attinge solo da campagne fatte da altri pubblicitari alla lunga rischia di diventare arido.

Un esempio. Le Pop Star creative degli anni ottanta non sarebbero riuscite a concepire l’idea di produrre fake, perché le idee che pensavano poi uscivano tranquillamente, e pure senza modifiche. Inoltre quelle stesse idee venivano realizzate con i migliori registi e fotografi al mondo, nelle migliori location e senza alcuna restrizione di budget. Una pacchia che un creativo di oggi fa pure fatica a immaginare.

La loro reputazione era tale che gli uomini d’azienda non vedevano l’ora che le agenzie venissero a presentare le nuove campagne. Per loro era un momento eccitante, formativo, ma anche utile per spezzare la monotonia di intere giornate passate a inseguire i numeri. E avevano un rispetto tale per i creativi che non si permettevano di chiedere modifiche. D’altronde si trovavano davanti a istrioni del calibro di Maurizio D’Adda, capaci di vendere campagne che qualcuno gli aveva spiegato cinque minuti prima in taxi durante il viaggio per arrivare al meeting.

I fake arrivano nel nostro Paese nel 1991, con due campagne che i creativi italiani videro per la prima volta al Palais di Cannes. Film che naturalmente furono premiati. Leone d’Oro per il film Boxer di Johnny Lambs dell’agenzia Impact&Dolci Biasi. Leone d’Argento per il film Japanese Demonstration per Domopak dell’agenzia Ata Tonic.

Nonostante la nostra innata capacità di raggirare le regole, però, non siamo stati noi italiani a inventare i fake, ma piuttosto i brasiliani qualche anno prima. Il successo inatteso di quelle due campagne, però, diede inizio a una corsa incredibile alle campagne finte: a tutti i creativi italiani scattò il desiderio di sfruttare questo escamotage per vincere un premio tanto ambito come un Leone o un Clio. Anche Perché la Golden Age degli anni ottanta stava sfumando e con lei si stava iniziando a sgonfiare pure la reputazione dei creativi, tanto che portare a casa campagne immacolate di commenti stava diventando un’impresa sempre più difficile.

Non è corretto dire che i fake siano stati la causa principale della decadenza del nostro settore, ma sicuramente hanno contribuito. Alle grandi Pop Star creative fregava poco dei premi, piuttosto interessava realizzare cose che restassero impresse nella memoria collettiva. Gavino Sanna era fischiato dall’intera platea dei pubblicitari emergenti ogni volta che saliva su un palco a ritirare un riconoscimento, perché era visto come il comunicatore dei buoni sentimenti, un registro fuori moda per i creativi fighetti della nouvelle vague. Ma nessuno di quei fischi ha mai scalfito un capello del suo incorruttibile caschetto e oggi ricordiamo ancora le sue campagne per Barilla mentre ci siamo dimenticati di quelle dei fighetti wannabe british di quegli anni.

Barilla “Gattino” per le penne rigate (Direttore Creativo Gavino Sanna, Copywriter Andrea Concato, Art Director Roberto Fiamenghi)

I fake, però, hanno tolto credibilità alla nostra professione. I clienti hanno iniziato a guardarci come persone immature, interessate più alla propria ambizione e alla vanità personale che al bene della marca e del prodotto. E a questo declino della reputazione creativa si è contrapposta una crescita inversamente proporzionale delle altre P del marketing (Product, Price e Placement).

Come i nuovi pubblicitari sono stati prodotti in laboratorio nelle scuole di comunicazione, i nuovi uomini di marketing sono usciti già imparati dalle università. E la presunzione di certi bocconiani imberbi e rampanti ha distrutto quel poco che restava dell’allure dei creativi, che da immemore tempo non sono più visti come terminali nervosi, professionisti che sentono le vibrazioni di una società che comunica, poeti che danno alle merci la valenza dei sogni. Da tempo sono tornati a essere visti solo come tecnici.

Ma non è finita qui. Perché la rivoluzione successiva, quella digitale, iniziata nei primi anni del ventunesimo secolo, nonostante all’inizio sembrasse una cosa eccitante perché rappresentava l’esplorazione di un nuovo territorio, in realtà ha accelerato il processo di crisi della creatività.

Dal 2004 al 2008 sembrava che stessimo assistendo a una nuova primavera creativa. Erano gli anni in cui uscivano i primi progetti di viral, di ambient, e di guerrilla. Gli anni dell’unconventional, quelli di Ninja Marketing e di ebolaindustries, quelli in cui la strategia di comunicazione era parlare al  pubblico nella maniera meno ortodossa possibile. Erano gli anni della cosiddetta crossmedialità.

Anni che sono durati poco, perché subito dopo sono arrivati i social network, con le loro piattaforme chiuse che si sono isolate sempre più in loro stesse per monetizzare e si sono trasformate in rigidi canali media.

La maggioranza dei creativi ha smesso così di fare campagne e ha iniziato a fare post e piani editoriali. Fotografi e registi si sono praticamente estinti, perché data la sempre maggiore esiguità degli investimenti, le aziende non vedevano il motivo di spendere soldi per produrre una foto quando era possibile usare una banca immagini. E nemmeno comprendevano perché prendere un bravo regista per una storia Instagram, quando sarebbe stato possibile girarla con l’iPhone.

L’accessibilità alla tecnologia nel ventunesimo secolo ha rappresentato una grande opportunità per alcun talenti del web che altrimenti avrebbero fatto fatica ad emergere, ma ha dato il benvenuto un esercito di improvvisati che ha fatto precipitare verso il basso la qualità media dei contenuti.

La peggiore conseguenza del web per i creativi, però, è stata senz’altro l’illusione dei numeri. Gli uomini di marketing sono stati sempre ossessionati dai numeri. Sono maniaci del controllo la cui massima aspirazione è quella di avere strumenti talmente sofisticati da non essere costretti a prendere nessuna decisione autonoma. Fate un test. Chiedete loro se preferiscono la cosa A o la cosa B. Scommetto che non vi daranno mai una risposta secca, precisa, ma che riusciranno a convincervi che preferiscono certi aspetti della A e altri della B. Una versione C che però non è proprio C ma piuttosto D, una D2. Insomma, non è possibile avere un’alternativa?

Che i numeri riescano a spiegare una cosa irrazionale come il comportamento umano, nello specifico dei consumatori, è una vera fissazione per loro. Da sempre.

Nell’episodio 4 della stagione 7 della serie Mad Men, The Monolith, l’agenzia decide di rinunciare al salottino dei creativi per installare in quelle stesse stanze un grosso computer IBM 360 voluto da Harry Crane, il capo del Reparto Media. Oltre ai continui riferimenti alla filmografia di Stanley Kubrik, l’episodio è interessante per il dialogo che si svolge fra Donald Draper, direttore creativo, e Lloyd, tecnico informatico.

Donald Draper: “tu parli come un amico, ma non lo sei”. Tecnico: “scusa, ma non capisco…” Donald Draper: “conosco il tuo nome!” Tecnico: “è Lloyd, te l’ho detto…” Donald Draper: “no, tu hai molti nomi… io lo so chi sei!”

Il riferimento è chiaro, ma lo spiego per chi non fosse avvezzo alla Bibbia: chi ha molti nomi è il diavolo.

Pensare che il marketing sia il male assoluto è un’esagerazione da creativi, d’accordo, ma allo stesso tempo pensare che i numeri possano risolvere tutto è una mera illusione. Eppure negli ultimi anni l’hype sul data driven qualcosa o sul performance marketing ha tolto le ultime residue libertà creative ai pubblicitari, relegandoli sempre più a tristi esecutori di processi.

La scorsa settimana ho sentito in radio un’affermazione di Linus molto interessante. Parlava della noia dell’attuale campionato di Formula Uno e della monotonia del Giro d’Italia, sport che nonostante tutto lui ama.

Vado a memoria: “adesso è tutto automatizzato, ci sono computer che ti dicono quando devi pedalare e quando devi frenare, e poi ingegneri che ti suggeriscono dentro l’auricolare cosa devi fare, se scattare, accelerare, fermarti… peccato che le gare sono diventate tutte uguali, noiose, niente a che fare ad esempio con il design della auto degli anni cinquanta e sessanta, quando si sono prodotte le auto più belle, proprio perché non esistevano tutte queste cose”.

Noi creativi rischiamo di ridurci sempre più a tecnici a cui uomini di marketing supportati da dati più o meno precisi, numeri più o meno illuminanti, chiedono di riprodurre campagne sempre uguali, che hanno avuto successo per qualche prodotto simile da qualche altra parte del mondo. È la diretta conseguenza della perdita di credibilità e della perdita del nostro ruolo consulenziale.

E la cosa più difficile da accettare è che se oggi un brand vuole una creatività originale è facile che chieda direttamente a qualche Creator o a un Influencer piuttosto che a un’agenzia di pubblicità. Anche se alla fine i risultati sono discutibili.

The Jackal, bravissimi, ma c’era proprio bisogno di loro per fare una pubblicità del genere?

E che dire di Condominio Surace per Ace?

Se poi il paragone lo facciamo dall’ultimo film di Martini, con protagonista l’influencer per eccellenza, Chiara Ferragni, e uno spot ideato da un’agenzia come McCann Ericksson per lo stesso brand nel lontano 1993, il verdetto a mio parere è impietoso.

I Creators non sono più bravi dei creativi pubblicitari, ma se i brand oggi tendono a preferirli un motivo c’è. Anzi, ce ne sono almeno due. Il primo è che i Creators hanno già un pubblico che i brand decidono giustamente di sfruttare. Il secondo motivo è che hanno già dimostrato di saper coinvolgere online milioni di persone, mentre un qualsiasi Mario Rossi dell’agenzia Piripicchio&Partners cosa ha dimostrato? Niente.

Mario Rossi, creativo della P&P, agli occhi del cliente non solo non ha nessuna credibilità, ma non ha neppure l’esperienza necessaria per ideare una creatività che possa coinvolgere il suo target.

Quando Séguéla scrisse il suo libro, nel 1979, fare il pubblicitario era un mestiere trasgressivo, mentre oggi corrisponde a fare l’impiegato di concetto negli anni ottanta. Fai la tua bella scuola, segui le tue regolette, preghi che non arrivino troppe modifiche e cerchi di produrre un fake ogni tanto per non far avvizzire il portfolio. Si può tranquillamente dire che oggi ci vuole più coraggio per fare il Creator. Immaginate di spiegare alla nonna di campare pubblicando un sacco di caxxate su YouTube.

Per tornare a essere credibili come creativi agli occhi dei clienti bisogna innanzitutto tornare alla mentalità delle nostre vecchie Pop Star, che non si accontentavano di fare campagne ma che avevano mille altri interessi, perché avevano l’urgenza di esprimere la loro creatività a tutto tondo. A ogni giovane creativo che arriva in agenzia dico sempre che è bello avere la passione per la pubblicità, ma è sbagliato avere solo quella, perché c’è il rischio di produrre cose poco originali, che qualcuno ha già pensato per qualche altra campagna.

Credo che sia arrivato il momento di smetterla di guardare le case histories e sia necessario tornare a leggere libri, guardare film, vedere mostre. E soprattutto sia il momento di tornare a osare. Ricominciare a fare esperienze che non c’entrino niente con la pubblicità, e più queste esperienze ci sembreranno caxxate, meglio è. Perché la pubblicità che funziona davvero, quella che resta nel cuore del pubblico, ha sempre avuto bisogno di leggerezza. Ed è stata fatta da gente che si divertiva, non da tecnici specializzati schiavizzati dalle call to action. Il marketing continuerà a dire che i brand hanno bisogno di numeri, ma voi lasciateli parlare, perché nessuna persona al mondo ha mai amato un brand che non sapesse regalargli un’emozione.

È il momento di tornare a riprenderci la creatività, a costo di diventare Creators anche noi. È il momento di tornare a divertirci, di combattere per le idee e per l’originalità. L’alternativa è quella di spegnersi lentamente. La prova è che quello che qualcuno insiste a definire impropriamente come “il mestiere più bello del mondo” fa sempre più fatica ad attrarre talenti. I numeri nelle scuole sono in calo e c’è stata un’importante Great Resignation negli ultimi anni. La maggioranza dei talenti più giovani preferiscono guadagnare due spicci facendo i nomadi digitali piuttosto che passare le notti inutilmente in un’agenzia di pubblicità. Mentre i pochi ragazzi che hanno ancora passione per questo mestiere non hanno vita facile: se riescono a pagarsi la retta di una scuola di comunicazione, con il rimborso spese di uno stage oppure lo stipendio di un primo impiego, fanno fatica a concedersi un appartamento in affitto in una Milano sempre più gentrificata.

I creativi di talento degli anni ottanta venivano a lavorare in pubblicità perché c’erano i soldi. I creativi di talento del 2023 rischiano di scappare per il motivo opposto: non ce ne sono più. E come dargli torto?

Perché va bene raccontarsi che “facciamo il mestiere più bello del mondo” ma un conto è fare sacrifici per poi girare spot con gente del calibro di Tarsem o Jonathan Glazer, tutt’altro è faticare per arrivare alla fine del mese per produrre solo post su Facebook con foto di Getty Images.

È un problema, grave, non solo per noi creativi e per le agenzie di pubblicità in quanto mette a serio rischio il prossimo ricambio generazionale, ma lo è anche per i brand. Perché quando le aziende capiranno che le campagne figlie del marketing e del data driven qualcosa sono tutte uguali e annoiano i clienti, da chi si faranno fare la creatività?

Immagino la risposta di molti: dalle Intelligenze Artificiali.

Proprio nella giornata di ieri Sam Altman, CEO di OpenAI, l’azienda che ha realizzato ChatGPT, Demis Hassabis, amministratore delegato di Google DeepMind, e molti altri studiosi tra cui Geoffrey Hinton, il padrino dell’IA, e Yoshua Bengio, professore di Computer Science all’Università di Montreal, hanno firmato un appello sulla pagina web di Center for AI Society in cui dichiarano che “mitigare il rischio di estinzione causato dall’AI dovrebbe essere una priorità globale, insieme a rischi su vasta scala come le pandemie e la guerra nucleare”.

Io non credo che l’Intelligenza Artificiale ci porterà all’estinzione come razza. Al momento sono più preoccupato della possibile estinzione dei creativi, se poi questa sarà a causa dei Creators, degli Influencers o dell’AI non saprei. Quello che credo invece è che per sopravvivere a questi potenti nemici bisognerebbe tornare a inseguire l’Originalità.

Originalità che né InfluencersIntelligenze Artificiali oggi sembrano in grado di produrre, una qualità che sembra essere sparita pure da ogni altro ambito artistico, come nella musica o nel cinema. Originalità che una volta rappresentava la massima aspirazione di ogni creativo.

Come tornare a fare cose originali, e quindi creative nel senso più ampio del termine, è un problema complesso, che ammetto non saprei risolvere. Ma credo fermamente a una cosa: la soluzione non potrà arrivare dai numeri, piuttosto da un’idea o forse da un’intuizione. E le idee sono quella materia magica e irrazionale che solo i creativi di talento sanno maneggiare.

Comments (28)

  1. Ercole Egizi

    Bellissima analisi. Lucida. Vera. Sincera/

  2. Stefania

    Pienamente d’accordo. E se ci pensi bene anche Don Draper stesso alla fine per trovare nuova linfa è andato in un contesto totalmente diverso (Esalen, il ritiro hippy più famoso degli anni 60).

    • mizioblog

      brava. E infstti lì ha l’illuminazione per lo spot che ha sempre inseguito, la sua Balena Bianca, lo spot di Coca Cola.

  3. Ciao Mizio,

    capisco che per problemi di spazio hai tralasciato molti altri, da Girolamo Melis con il uo “Lento suicidio dei coglioni” (campagna contro il fumo) o Toscani che era direzione creativa per Benetton.
    Comunque questi grandi creativi erano grandi lupi solitari, che non temevano l’errore, la polemica, l’imprefezione. Anzi, li cercavano, perché faceva parte della genuinità del messaggio.

    I content creators (salvo rare eccezioni) sono prodotti sociali, il loro processo prevede sia la creazione partecipativa che il filtraggio e la pulizia di un contenuto secondo logiche accettabili nel contesto in cui operano. Quindi producono contenuti uniformi, filtrati dal proprio intestino (mamma, entourage, sponsor), uniformati al contesto – poco a che vedere coi lupi di sopra.

    Anche oggi ci sono lupi creativi, solo che non li vediamo, forse sono più occupati a creare l’imperfezione in qualunque cosa faciano (anche adv), che a leggere noi, per nostra grande fortuna.

    Viva l’imperfezione.

    • mizioblog

      Ciao Max, verissimo, come ti ho risposto su LinkedIN, sull’argomento si potrebbe scrivere un libro e già un post di oltre 10.000 battute è una cosa che qualsiasi digital guru scoraggerebbe. Alla fine viva l’imperfezione e la rottura delle regole.

  4. Graziana Maellaro

    Sono una nomade digitale nel senso vero e per poter guadagnare un po’ di spicci ho vissuto in Cina 10 anni, adattando contenuti senza distruggerne il senso… o almeno provandoci.

    Sono tornata a Milano 5 mesi fa e mi piacerebbe che qualcuno mi spiegasse come continuare o iniziare a fare la creativa in questa città…

    Consigli?

    • mizioblog

      Ciao Graziana, massima stima per tutti i nomadi digitali. Quando parlavo di due spicci intendevo che ragazzi molto giovani pur di non entrare in agenzia preferiscono guadagnare meno. Era naturalmente una provocazione. Consigli? Io credo che a breve sarà più facile entrare in agenzia proprio perché si fa fatica a trovare risorse, ma se riesci a cavartela da freelance perché cambiare? Il mio periodo da freelance lo ricordo come il più bello in assoluto.

  5. Da natìo art Mcann Frankfurt aggiungo solo un “Truth well told” a questo bellissimo testamento.
    E, da buon creativo di Serie B – a Roma – mi ricordo il vicino di camera a Cannes e allora direttore creativo ATA Univas, Maurizio D’Adda.

  6. Massimo Salomoni

    Molto bello, complimenti

  7. Grazie.
    Ci sono solo due cose che non mi tornano molto in questa lucidissima e bellissima analisi storica.
    1. il bias del “ai miei tempi” è emotivamente potentissimo e cedo spesso anch’io, ma sappiamo che rimpiangere il passato non è mai servito a molto.
    servono invece le tue esortazioni ad andare avanti e arricchire il concetto di creatività con nuove contaminazioni.
    2. il marketing, il cui ingrato compito è combinare il dato con la creatività, non è lo stupido mastino dei numeri che dipingi, e grazie a dio non è solo numeri. è un mestiere bellissimo e può essere il miglior alleato di una nuova stagione di scrittura creativa.
    del resto, grazie a chi se non a un marketing coraggioso e divertente, sono state possibili le campagne più belle che hai citato?

    Il concetto che il performance marketing si sta accorgendo di aver (…ops) dimenticato e trascurato nell’orgia di KPI digitali, è IL BRANDING. E il branding è una relazione emotiva (solo grazie a quella, possono arrivare i numeri). Per fare #backtobranding serve una nuova alleanza (biblica anche questa, come citazione) tra marketer e creativi.
    I talenti ci sono: come attrarli, tenerli e remunerarli bene, è il più grosso problema della mancanza di cultura che denunci.

    • mizioblog

      Ciao Flavia, il tuo commento al mio post è molto lucido e interessante.
      Condivido soprattutto il concetto dell’abdicazione del branding.
      Non condivido invece quello che definisce il bias “ai miei tempi”: ho parlato del passato solo per contestualizzare il presente, ma sono molto attivo nell’oggi e per carattere non sono affatto nostalgico. A me interessa piuttosto riflettere come agire nel presente per migliorare il domani. Sull’importanza dei numeri naturalmente ho “drammatizzato”: un espediente retorico per coinvolgere maggiormente il target dei creativi e stimolare una risposta da parte del marketing. Ma i dati sono importanti se utilizzati con criterio.
      E comunque grazie per il tempo che hai dedicato a leggere l’articolo e per la tua analisi.

  8. Credo stamperò questo post per appenderlo nei muri del mio modesto studio di consulenza.

  9. Parole che sono come acqua fresca a garganella d’agosto.

  10. Luigi Ciccognani

    ; ) Grande Mizio Complimenti e grazie per questa tua perfetta analisi e per la passione che hai trasmesso🧠❤️💪💪

  11. Costanza

    Non sono un creativo ma sono un account quindi ho molti nomi.
    Ho iniziato in tempo per conoscere Maurizio D’Adda per mia fortuna, forse per questo credo ancora di fare il mestiere più bello del mondo.
    Condivido ogni parola, sillaba e segno di interpunzione di questo articolo, in particolare “Come i nuovi pubblicitari sono stati prodotti in laboratorio nelle scuole di comunicazione, i nuovi uomini di marketing sono usciti già imparati dalle università.” Non perché creda che per il marketing e la pubblicità non serva studiare, ma perché per il marketing e la pubblicità non basta solo studiare. Serve essere curiosi, guardare le persone intorno a te, leggere, vedere film, ascoltare musica, girovagare sui social, ascoltare le conversazioni delle persone sul treno, viaggiare. Serve immergersi nella realtà. Come mi disse una volta un direttore marketing “bello ma questo è un power point, lì fuori c’è la realtà”.

  12. Grazie Mizio. Ne farei un manifesto da divulgare 👏

  13. Tutte cose molto giuste e a cui credo (sembrano mie parole scritte in una perfetta disamina approfondita e puntuale).
    Grazie, perché iniziavo a pensare di predicare nel deserto!

    Mi è stato detto che le nuove generazioni vivono di scroll repentini sui device e non hanno più tempo di soffermarsi a pensare al contenuto, che per sua natura di originalità, li deve far fermare almeno 3 secondi per decifrarlo. Mi è stato detto che la pubblicità non è arte e deve essere immediata (e scontata). Mi è stato detto che uno spot deve essere come un libretto di istruzioni animato. Mi è stato detto che sui social bisogna abbassare il livello di creatività e, dopo che lo hai abbassato, va abbassato ancora almeno altre quattro volte. Mi è stato detto che una foto di un influencer, tipo Brahmino, o un trattamento grafico di tendenza modaiola vale molto di più di un messaggio strutturato.
    Non credo a nulla di quanto mi è stato detto.

    Tuttavia stiamo combattendo una guerra contro i mulini a vento e non vedo soluzioni.

    Siamo probabilmente troppo oltre per cercare di frenare l’inarrestabile macchina che avanza: dalla mancanza di cultura aziendale, ai risultati tutti&subito, alla dispersione di budget per parlare su più piazze (non sempre tutte funzionali), ai continui nuovi canali o mezzi che affiorano a confondere le idee di company e vertici di agenzie.
    L’intellighenzia tutta è protesa ai numeri e alla novità tecnologica.
    In questo contesto a domino vengono penalizzati anche i giovani. Dall’alto a cascata fino al basso, come un serpente che si nutre delle sue proprie viscere.

    E anche io non sono contro alla tecnologia, non temo il Basilisco di Roko (chiedete all’AI di spiegarvelo!), ma tutto andrebbe messo nella giusta prospettiva: c’è chi fa ricerca e sviluppo, chi pensa a strategie, chi a implementarle sfruttando le potenzialità di ogni mezzo/canale e chi pensa a costruire idee originali.

    Che le idee vadano rimesse al centro di ogni processo è da mò che si dice, ma chi è davvero capace di imprimere una tale forza per il cambio di rotta culturale?

    Se fondi un nuovo movimento aderisco al volo!
    Grazie ancora

  14. Francesco

    Commento solo per il piacere di comparire sotto a questa analisi.

  15. Durante tutta la lettura, proprio come fosse un post fissato in alto sulla bacheca, ho avuto in testa questa frase di Ansel Adams “Non fai solo una fotografia con una macchina fotografica. Tu metti nella fotografia tutte le immagini che hai visto, i libri che hai letto, la musica che hai sentito, e le persone che hai amato.”

  16. Ho provato un’emozione intensa leggendo questo articolo.
    Sono le 2.22 di notte e vado a dormire con un nodo in gola che mi stringe con dolcezza e la bella sensazione che provi dopo aver ricevuto un regalo azzeccato, perché è davvero adatto a te.

    Grazie

  17. anna montefusco

    Commovente, Mizio. Mi hai fatto venire le lacrime agli occhi.

  18. Bravo Maurizio,
    sempre lucido, attento e intelligente, come ai vecchi tempi sui banchi di Accademia.
    Articolo illuminante e piacevole. Un excursus sui nostri vecchi insegnanti, nonché colleghi. Siamo stata una generazione molto fortunata di ex-pubblicitari, oggi purtroppo sempre di più alla mercé del consumismo.
    Stima immensa agli anni ’90.

  19. Fabrizio

    Complimenti. Dovresti far leggere questo articolo a tutti i giovani che vorrebbero fare il mestiere del ‘comunicatore’ – in azienda, in agenzia, come freelance, dovunque.

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