Lunedì 14 marzo è uscita su YouMark una bella intervista che mi ha fatto Monica Lazzarotto. Il tema principale riguardava il ruolo del Direttore Creativo in advertising: come è cambiato e se, nonostante tutto, è ancora un mestiere che vale la pena fare.
Ho parlato di come oggi gli Chef abbiano sostituito i Direttori Creativi in visibilità e come opinion maker, di quanto siano patetici i personaggi che si spacciano per consulenti solo perché ce l’hanno stampato sul biglietto da visita e di quanto la frontiera più innovativa della creatività si stia spostando dall’advertising al fashion.
È un’intervista lunga, ancorché brillante (d’altronde potrei affermare altrimenti?), che potete leggere su YouMark oppure ascoltare direttamente qui sotto.
Tra i tanti temi che ho affrontato, ce n’è uno che però vale la pena approfondire, e mi riferisco alla maniacale e indefessa volontà di controllo dell’uomo di marketing.
Non è una novità: da quando esiste il marketing c’è stato sempre il tentativo di ridurre la comunicazione a freddi e semplici numeri.
La comunicazione infatti si divide in due grandi territori in continuo conflitto fra loro: quello razionale del marketing e quello irrazionale della creatività. A volte va di moda l’uno e a volte l’altro, possiamo dire che si alternano a seconda dei periodi, ma è una discussione che di certo non nasce oggi ma si perde nella notte dei tempi.
C’è addirittura una puntata di Mad Men che ne parla, che sta a significare che era un argomento già caldo negli anni sessanta. E non è una puntata qualunque, è una delle più iconiche, dedicata a Stanley Kubrick e dal titolo The Monolith.
Siamo nell’ultima stagione di Mad Men e Donald Draper è in crisi: di lì a poco lascerà l’agenzia prima di rientrare in advertising nel finale di stagione più bello di una serie televisiva. Nel frattempo la Sterling Cooper & Partner ha deciso di rinunciare alla sala d’intrattenimento dei creativi per installare in quella stessa stanza un nuovo ed enorme computer che, secondo le nuove filosofie dell’advertising, farà conoscere all’agenzia tutti i desideri dei consumatori permettendole di dominare Madison Avenue.
In questo contesto assistiamo al dialogo fra un Donald Draper mezzo brillo, ma lucido nella sua visione, e l’ingegnere informatico che sta installando il grande cervellone elettronico.
Donald Draper: “Tu parli come un amico, ma non lo sei… conosco il tuo nome!” Ingegnere informatico: “Il mio nome è Floyd, te l’ho già detto…” Donald Draper: “No, tu hai molti nomi… so chi sei…”
Con l’affermazione “tu hai molti nomi” Donald Draper fa un chiaro riferimento alla figura del diavolo e, se volessimo semplificare la questione, potremmo dire che l’uomo di marketing è un buon diavolo che cerca in tutti i modi di controllare la mente delle persone, mentre il creativo è la parte più buona della comunicazione perché nella sua opera di persuasione cerca di esprimere la parte migliore di sé, cioè il suo talento.
Ma è ovvio che vorrebbe dire semplificare troppo, inoltre si darebbe vita a una distinzione discutibile, anche perché per esperienza personale posso affermare che gli uomini di marketing sono esseri umani quasi sempre migliori dei creativi, che sono perlopiù snob, presuntuosi e privi di umiltà.
C’è da dire però un’altra cosa: anche se chi lavora nel marketing non merita di bruciare all’inferno, spesso è davvero afflitto da manie di controllo più o meno gravi che finiscono quasi sempre frustrate.
E questo perché tutti i tentativi di controllare i consumatori finora sono miseramente falliti.
Per tanto tempo il marketing ha avuto un debole per le ricerche di mercato: indagini costose che servivano soprattutto per far dire alla gente quello che gli uomini di marketing volevano sentirsi dire. A conferma della poco utilità dei test, qualitativi o quantitativi non importa, c’è il fatto che nessuna grande campagna è mai uscita da un focus group.
E questo è un dato scientifico, o almeno empirico.
Perché i grandi successi, così come le grandi scoperte o le grandi svolte nella storia, sono imprevedibili e vanno a cogliere sempre un’anomalia di sistema, un cortocircuito molto spesso emotivo, o comunque un fattore impossibile da prevedere e da controllare. Un esempio illuminante è quello di Apple 1984, secondo la rivista Ad Age lo spot migliore di tutti i tempi, bocciato dall’ingessato consiglio d’amministrazione di Apple e andato in onda solo perché Steve Jobs ha deciso di dare comunque retta al suo istinto.
Con l’avvento del digital la razionalità ha avuto il sopravvento nella comunicazione: si era formata la convinzione che tutto fosse finalmente misurabile, concetto avvalorato dal fatto che potendo entrare negli smartphone della gente il marketing sarebbe riuscito a controllare le persone.
È nata così la grande illusione del Data Driven.
Eppure sarebbe stato sufficiente soffermarsi sulla tipologia di annunci che ci arrivano sui feed dei social network, improbabili promozioni da Amazon oppure cianfrusaglie da Wish, per comprendere quanto il Data Driven fosse un fenomeno sopravvalutato, un’illusione fragile come una bolla speculativa o di sapone. E invece no, abbiamo dovuto aspettare che qualcuno ci mettesse davanti a una cosa scontata e banale come la Privacy.
La prima botta il Data Driven l’ha subita da Apple, circa un anno fa, con l’introduzione del sistema operativo iOS 14.5 che ha consentito agli utilizzatori di negare alle app l’accesso ai dati e di tracciare le navigazioni, mentre l’altra botta gliela sta per dare Google con il suo Privacy Sandbox.
Due mosse che hanno fatto capire a tutti, o almeno quasi a tutti, due cose ovvie: la prima è che le persone odiano l’invadenza del marketing e amano farsi gli affari propri, la seconda è che stanno suonando a morto le campane del marketing persuasivo.
Ma erano cose davvero facili da prevedere data la nostra esperienza pregressa: le persone hanno cominciato a odiare la tv quando abbiamo iniziato a riempire di spot piatti e insulsi i loro programmi preferiti, figuriamoci adesso che le call to action rompono le palle su device intimi come gli smartphone.
E così, caro il mio Uomo di Marketing, lo so che gestire la tua ansia da prestazione è dura. Lo so che alla fine sei condannato a tradurre i tuoi risultati in numeri, che adori Excel e che daresti un braccio (magari quello del tuo stagista) per poter ridurre la creatività a una formuletta infallibile, ma devo darti una cattiva notizia: per quanto ti sforzi non sarà mai così.
Nella comunicazione ci sarà sempre una variabile impazzita, impossibile da controllare che si chiama emozione.
Eh, lo so anch’io: sarebbe bello avere un computer infallibile che basta che schiacci un bottone e ti dice cosa fare, se esistesse lo userei anch’io invece di sorbirmi le paturnie dei miei dipendenti. Purtroppo c’è questa maledetta roba dell’emozione, una funzione irrazionale dell’essere umano che nessuno è ancora riuscito a spiegare.
E dunque questo computer infallibile che brami da sempre non esiste ancora. Ed è probabile che non esisterà mai.
Ne esiste invece un altro, un computer biologico e imperfetto che si alimenta di passione, di cultura e di immaginazione. Questo computer biologico si chiama Creativo e se tu imparassi a usarlo bene come facevi un tempo potrebbe darti grandi soddisfazioni: potresti tornare a fare campagne che funzionano, perché semplicemente sono capaci di emozionare la gente.
Ma per usarlo bene devi prima riuscire a superare la tua fase anale, quella che ti blocca sempre sulla tua ostinata mania di controllo e che ti porta a ridurre tutto a formulette, numeri e grafici a torte.
Lasciati andare dunque, rilassati, e torna a credere in quei circuiti speciali in cui scorrono sensibilità, esperienza e talento, perché solo quando tornerai a guardare negli occhi il tuo Creativo riuscirai a vedere davvero lo sguardo del tuo Consumatore.
Lunedì 14 marzo è uscita su YouMark una bella intervista che mi ha fatto Monica Lazzarotto. Il tema principale riguardava il ruolo del Direttore Creativo in advertising: come è cambiato e se, nonostante tutto, è ancora un mestiere che vale la pena fare.
Ho parlato di come oggi gli Chef abbiano sostituito i Direttori Creativi in visibilità e come opinion maker, di quanto siano patetici i personaggi che si spacciano per consulenti solo perché ce l’hanno stampato sul biglietto da visita e di quanto la frontiera più innovativa della creatività si stia spostando dall’advertising al fashion.
È un’intervista lunga, ancorché brillante (d’altronde potrei affermare altrimenti?), che potete leggere su YouMark oppure ascoltare direttamente qui sotto.
Tra i tanti temi che ho affrontato, ce n’è uno che però vale la pena approfondire, e mi riferisco alla maniacale e indefessa volontà di controllo dell’uomo di marketing.
Non è una novità: da quando esiste il marketing c’è stato sempre il tentativo di ridurre la comunicazione a freddi e semplici numeri.
La comunicazione infatti si divide in due grandi territori in continuo conflitto fra loro: quello razionale del marketing e quello irrazionale della creatività. A volte va di moda l’uno e a volte l’altro, possiamo dire che si alternano a seconda dei periodi, ma è una discussione che di certo non nasce oggi ma si perde nella notte dei tempi.
C’è addirittura una puntata di Mad Men che ne parla, che sta a significare che era un argomento già caldo negli anni sessanta. E non è una puntata qualunque, è una delle più iconiche, dedicata a Stanley Kubrick e dal titolo The Monolith.
Siamo nell’ultima stagione di Mad Men e Donald Draper è in crisi: di lì a poco lascerà l’agenzia prima di rientrare in advertising nel finale di stagione più bello di una serie televisiva. Nel frattempo la Sterling Cooper & Partner ha deciso di rinunciare alla sala d’intrattenimento dei creativi per installare in quella stessa stanza un nuovo ed enorme computer che, secondo le nuove filosofie dell’advertising, farà conoscere all’agenzia tutti i desideri dei consumatori permettendole di dominare Madison Avenue.
In questo contesto assistiamo al dialogo fra un Donald Draper mezzo brillo, ma lucido nella sua visione, e l’ingegnere informatico che sta installando il grande cervellone elettronico.
Donald Draper: “Tu parli come un amico, ma non lo sei… conosco il tuo nome!” Ingegnere informatico: “Il mio nome è Floyd, te l’ho già detto…” Donald Draper: “No, tu hai molti nomi… so chi sei…”
Con l’affermazione “tu hai molti nomi” Donald Draper fa un chiaro riferimento alla figura del diavolo e, se volessimo semplificare la questione, potremmo dire che l’uomo di marketing è un buon diavolo che cerca in tutti i modi di controllare la mente delle persone, mentre il creativo è la parte più buona della comunicazione perché nella sua opera di persuasione cerca di esprimere la parte migliore di sé, cioè il suo talento.
Ma è ovvio che vorrebbe dire semplificare troppo, inoltre si darebbe vita a una distinzione discutibile, anche perché per esperienza personale posso affermare che gli uomini di marketing sono esseri umani quasi sempre migliori dei creativi, che sono perlopiù snob, presuntuosi e privi di umiltà.
C’è da dire però un’altra cosa: anche se chi lavora nel marketing non merita di bruciare all’inferno, spesso è davvero afflitto da manie di controllo più o meno gravi che finiscono quasi sempre frustrate.
E questo perché tutti i tentativi di controllare i consumatori finora sono miseramente falliti.
Per tanto tempo il marketing ha avuto un debole per le ricerche di mercato: indagini costose che servivano soprattutto per far dire alla gente quello che gli uomini di marketing volevano sentirsi dire. A conferma della poco utilità dei test, qualitativi o quantitativi non importa, c’è il fatto che nessuna grande campagna è mai uscita da un focus group.
E questo è un dato scientifico, o almeno empirico.
Perché i grandi successi, così come le grandi scoperte o le grandi svolte nella storia, sono imprevedibili e vanno a cogliere sempre un’anomalia di sistema, un cortocircuito molto spesso emotivo, o comunque un fattore impossibile da prevedere e da controllare. Un esempio illuminante è quello di Apple 1984, secondo la rivista Ad Age lo spot migliore di tutti i tempi, bocciato dall’ingessato consiglio d’amministrazione di Apple e andato in onda solo perché Steve Jobs ha deciso di dare comunque retta al suo istinto.
Con l’avvento del digital la razionalità ha avuto il sopravvento nella comunicazione: si era formata la convinzione che tutto fosse finalmente misurabile, concetto avvalorato dal fatto che potendo entrare negli smartphone della gente il marketing sarebbe riuscito a controllare le persone.
È nata così la grande illusione del Data Driven.
Eppure sarebbe stato sufficiente soffermarsi sulla tipologia di annunci che ci arrivano sui feed dei social network, improbabili promozioni da Amazon oppure cianfrusaglie da Wish, per comprendere quanto il Data Driven fosse un fenomeno sopravvalutato, un’illusione fragile come una bolla speculativa o di sapone. E invece no, abbiamo dovuto aspettare che qualcuno ci mettesse davanti a una cosa scontata e banale come la Privacy.
La prima botta il Data Driven l’ha subita da Apple, circa un anno fa, con l’introduzione del sistema operativo iOS 14.5 che ha consentito agli utilizzatori di negare alle app l’accesso ai dati e di tracciare le navigazioni, mentre l’altra botta gliela sta per dare Google con il suo Privacy Sandbox.
Due mosse che hanno fatto capire a tutti, o almeno quasi a tutti, due cose ovvie: la prima è che le persone odiano l’invadenza del marketing e amano farsi gli affari propri, la seconda è che stanno suonando a morto le campane del marketing persuasivo.
Ma erano cose davvero facili da prevedere data la nostra esperienza pregressa: le persone hanno cominciato a odiare la tv quando abbiamo iniziato a riempire di spot piatti e insulsi i loro programmi preferiti, figuriamoci adesso che le call to action rompono le palle su device intimi come gli smartphone.
E così, caro il mio Uomo di Marketing, lo so che gestire la tua ansia da prestazione è dura. Lo so che alla fine sei condannato a tradurre i tuoi risultati in numeri, che adori Excel e che daresti un braccio (magari quello del tuo stagista) per poter ridurre la creatività a una formuletta infallibile, ma devo darti una cattiva notizia: per quanto ti sforzi non sarà mai così.
Nella comunicazione ci sarà sempre una variabile impazzita, impossibile da controllare che si chiama emozione.
Eh, lo so anch’io: sarebbe bello avere un computer infallibile che basta che schiacci un bottone e ti dice cosa fare, se esistesse lo userei anch’io invece di sorbirmi le paturnie dei miei dipendenti. Purtroppo c’è questa maledetta roba dell’emozione, una funzione irrazionale dell’essere umano che nessuno è ancora riuscito a spiegare.
E dunque questo computer infallibile che brami da sempre non esiste ancora. Ed è probabile che non esisterà mai.
Ne esiste invece un altro, un computer biologico e imperfetto che si alimenta di passione, di cultura e di immaginazione. Questo computer biologico si chiama Creativo e se tu imparassi a usarlo bene come facevi un tempo potrebbe darti grandi soddisfazioni: potresti tornare a fare campagne che funzionano, perché semplicemente sono capaci di emozionare la gente.
Ma per usarlo bene devi prima riuscire a superare la tua fase anale, quella che ti blocca sempre sulla tua ostinata mania di controllo e che ti porta a ridurre tutto a formulette, numeri e grafici a torte.
Lasciati andare dunque, rilassati, e torna a credere in quei circuiti speciali in cui scorrono sensibilità, esperienza e talento, perché solo quando tornerai a guardare negli occhi il tuo Creativo riuscirai a vedere davvero lo sguardo del tuo Consumatore.
Comments (3)
Mizio for president! :-)))
Troppo buono Mauro.
Adoro
grazie
…un creativo markettaro