Il progetto saveyourears di Sony ci ha aperto le porte delle sale riunioni di molte multinazionali: non ci era mai capitato, in così poco tempo, di essere chiamati da tanti brand interessanti per fare una presentazione d’agenzia. La cosa più curiosa, però, è che ci aspettavamo le classiche presentazioni, mentre invece nell’ultimo mese ci siamo sempre ritrovati a parlare di comunicazione non convenzionale. Il virale sta velocemente diventando una moda, di questo ne sono consapevole da un pezzo, quello che mi ha stupito, però, è che le grande aziende lo stanno affrontando con consapevolezza, lucidità e pragmatismo. La cosa ancor più sorprendente è che c’è una parola che ha un effetto magico durante queste presentazioni, e questa parola è “community”.
E’ evidente, almeno per noi, che oggi tutti i brand sono eccitati all’idea di crearsi una community su internet, e che per questo sono disposti a rinunciare a parte del contenuto informativo sul prodotto per offrire ai navigatori un’esperienza ludica (comunque pertinente ai valori del brand). Ritengo che sia un’ottimo segnale per la comunicazione: significa che le aziende, specialmente quelle più importanti, sono disposte a sperimentare e ad aprire spazi in cui è possibile interagire con le persone che poi acquisteranno i loro prodotti. Il rischio, però, è quello che “community” diventi solo una parolina magica (nel passato parole del genere sono state comunicazione a 360 gradi, fidelizzazione, servizio completo…), un abracadabra che permette di far partire progetti importanti senza valutare le ripercussioni. Il termine “consumatore” è dileggiato da anni, è freddo e riporta subito al concetto di consumismo (altro termine entrato in crisi negli ultimi tempi) e così la parola “community” lo sta sostituendo. Ma la terminologia da sola non è in grado di cambiare la comunicazione. Il passaggio dal “consumatore” alle “community” comporta scelte strategiche precise e caute, inoltre richiede trasparenza, rispetto e sensibilità nei confronti delle persone che verranno in contatto con il progetto. Rispetto, trasparenza e sensibilità, sono appunto i valori alla base di ciò che noi ET stiamo definendo come brad experience. Se il consumatore infatti era fino a ieri una persona singola, una piccola isola che viveva il rapporto con la marca senza riuscire a condividere il suo apprezzamento o le sue delusioni, la community è invece una specie di continente popolato, un ambiente nel quale l’interazione con il brand e con gli altri può fare la fortuna o la sfortuna di un prodotto. E’ solo un’altra delle incredibili evoluzioni che internet ci ha regalato e di cui bisogna tener conto. Ben vengano le community, quindi, l’importante è acquisire la consapevolezza che ogni progetto di questo tipo richiede la massima professionalità ed etica. Come ho scritto tempo fa a proposito di saveyourears, le community diventano presto entità anarchiche e indipendenti: hanno i propri leader, hanno molti appassionati, ma producono anche qualche scettico e qualche scontento. Basta poco affinché il progetto si trasformi in un boomerang. Di conseguenza, attenzione prima di proporre una community a un cliente. Bisognerebbe essere molto chiari sulle conseguenze che l’azienda potrebbe affrontare. Bisognerebbe proporre questi progetti solo a chi ha il buon senso di accettare una sorta di brand democracy, cioè uno spazio dove i navigatori possano esprimersi e non si sentano sfruttati, strumentalizzati, né tantomeno costretti a sorbire continue offerte commerciali. Insomma, la brand democracy è il nuovo e unico posizionamento delle aziende che intendono sviluppare le community, perché rappresenta la migliore dimostrazione di quanto il brand sia disposto ad ascoltare e quindi a introdurre nel mercato prodotti che rispondano alle reali esigenze di tutti coloro che una volta venivano chiamati consumatori.
Il progetto saveyourears di Sony ci ha aperto le porte delle sale riunioni di molte multinazionali: non ci era mai capitato, in così poco tempo, di essere chiamati da tanti brand interessanti per fare una presentazione d’agenzia. La cosa più curiosa, però, è che ci aspettavamo le classiche presentazioni, mentre invece nell’ultimo mese ci siamo sempre ritrovati a parlare di comunicazione non convenzionale. Il virale sta velocemente diventando una moda, di questo ne sono consapevole da un pezzo, quello che mi ha stupito, però, è che le grande aziende lo stanno affrontando con consapevolezza, lucidità e pragmatismo. La cosa ancor più sorprendente è che c’è una parola che ha un effetto magico durante queste presentazioni, e questa parola è “community”.
E’ evidente, almeno per noi, che oggi tutti i brand sono eccitati all’idea di crearsi una community su internet, e che per questo sono disposti a rinunciare a parte del contenuto informativo sul prodotto per offrire ai navigatori un’esperienza ludica (comunque pertinente ai valori del brand). Ritengo che sia un’ottimo segnale per la comunicazione: significa che le aziende, specialmente quelle più importanti, sono disposte a sperimentare e ad aprire spazi in cui è possibile interagire con le persone che poi acquisteranno i loro prodotti. Il rischio, però, è quello che “community” diventi solo una parolina magica (nel passato parole del genere sono state comunicazione a 360 gradi, fidelizzazione, servizio completo…), un abracadabra che permette di far partire progetti importanti senza valutare le ripercussioni. Il termine “consumatore” è dileggiato da anni, è freddo e riporta subito al concetto di consumismo (altro termine entrato in crisi negli ultimi tempi) e così la parola “community” lo sta sostituendo. Ma la terminologia da sola non è in grado di cambiare la comunicazione. Il passaggio dal “consumatore” alle “community” comporta scelte strategiche precise e caute, inoltre richiede trasparenza, rispetto e sensibilità nei confronti delle persone che verranno in contatto con il progetto. Rispetto, trasparenza e sensibilità, sono appunto i valori alla base di ciò che noi ET stiamo definendo come brad experience. Se il consumatore infatti era fino a ieri una persona singola, una piccola isola che viveva il rapporto con la marca senza riuscire a condividere il suo apprezzamento o le sue delusioni, la community è invece una specie di continente popolato, un ambiente nel quale l’interazione con il brand e con gli altri può fare la fortuna o la sfortuna di un prodotto. E’ solo un’altra delle incredibili evoluzioni che internet ci ha regalato e di cui bisogna tener conto. Ben vengano le community, quindi, l’importante è acquisire la consapevolezza che ogni progetto di questo tipo richiede la massima professionalità ed etica. Come ho scritto tempo fa a proposito di saveyourears, le community diventano presto entità anarchiche e indipendenti: hanno i propri leader, hanno molti appassionati, ma producono anche qualche scettico e qualche scontento. Basta poco affinché il progetto si trasformi in un boomerang. Di conseguenza, attenzione prima di proporre una community a un cliente. Bisognerebbe essere molto chiari sulle conseguenze che l’azienda potrebbe affrontare. Bisognerebbe proporre questi progetti solo a chi ha il buon senso di accettare una sorta di brand democracy, cioè uno spazio dove i navigatori possano esprimersi e non si sentano sfruttati, strumentalizzati, né tantomeno costretti a sorbire continue offerte commerciali. Insomma, la brand democracy è il nuovo e unico posizionamento delle aziende che intendono sviluppare le community, perché rappresenta la migliore dimostrazione di quanto il brand sia disposto ad ascoltare e quindi a introdurre nel mercato prodotti che rispondano alle reali esigenze di tutti coloro che una volta venivano chiamati consumatori.