La cosa migliore di Somewhere è il trailer. Se Sofia Coppola si fosse limitata a quello, avrebbe realizzato un film decente. Purtroppo ha deciso di aggiungerci 96 minuti. Risultato: una rottura di coglioni pazzesca.
Il film parte con quell’atmosfera rarefatta che è propria dei film della Coppola. Anche Lost in Translation è vuoto, lento e rarefatto fin quasi alla noia, solo che in quest’ultimo il registro è coerente per tutto il film e poi gli interpreti sono Bill Murray e Scarlett Johansson (scusate se è poco).
Imperdibile la parte in cui i protagonisti vengono in Italia per ritirare il Telegatto. Se anche una regista misurata ed elegante come la Coppola scade nell’overacting appena tocca il nostro suolo, allora per il cinema italiano non c’è proprio speranza. Si vedono nell’ordine: Giorgia Surina, che dovrebbe querelare la regista per averle fatto fare la figura da cogliona davanti al tutto il mondo, una Laura Chiatti empatica come un 2 al Superenalotto, un Maurizio Nichetti premiato come miglior regista dell’anno (pensavo che l’ultimo film che avesse girato fosse Ratataplan, 20 anni fa), una Valeria Marini nella veste di Velona e una Simona Ventura che strizza fra le sue tette debordanti un crocifisso tempestato di brillanti (il Cristo è assente e sembra abbia dichiarato: “ne ho passate abbastanza, di stare in mezzo alle poppe delle Ventura proprio non se ne parla!”).
Sembra che il film sia in parte autobiografico e che ricordi il rapporto della regista con il padre, Francis Ford Coppola. E in effetti l’impressione che si ha è quella di partecipare a una di quelle serate in cui qualcuno ti tortura sottoponendoti le diapositive della sua infanzia. Proprio per questo l’unica cosa che se ne trae è questa: se Francis Ford Coppola invece di trattare Sofia con tanta condiscendenza le avesse tirato un bel paio di calci nel culo da piccola, forse la regista sarebbe cresciuta meno viziata e avrebbe raccontato storie che interessano alla gente.
La cosa migliore di Somewhere è il trailer. Se Sofia Coppola si fosse limitata a quello, avrebbe realizzato un film decente. Purtroppo ha deciso di aggiungerci 96 minuti. Risultato: una rottura di coglioni pazzesca.
Il film parte con quell’atmosfera rarefatta che è propria dei film della Coppola. Anche Lost in Translation è vuoto, lento e rarefatto fin quasi alla noia, solo che in quest’ultimo il registro è coerente per tutto il film e poi gli interpreti sono Bill Murray e Scarlett Johansson (scusate se è poco).
Imperdibile la parte in cui i protagonisti vengono in Italia per ritirare il Telegatto. Se anche una regista misurata ed elegante come la Coppola scade nell’overacting appena tocca il nostro suolo, allora per il cinema italiano non c’è proprio speranza. Si vedono nell’ordine: Giorgia Surina, che dovrebbe querelare la regista per averle fatto fare la figura da cogliona davanti al tutto il mondo, una Laura Chiatti empatica come un 2 al Superenalotto, un Maurizio Nichetti premiato come miglior regista dell’anno (pensavo che l’ultimo film che avesse girato fosse Ratataplan, 20 anni fa), una Valeria Marini nella veste di Velona e una Simona Ventura che strizza fra le sue tette debordanti un crocifisso tempestato di brillanti (il Cristo è assente e sembra abbia dichiarato: “ne ho passate abbastanza, di stare in mezzo alle poppe delle Ventura proprio non se ne parla!”).
Sembra che il film sia in parte autobiografico e che ricordi il rapporto della regista con il padre, Francis Ford Coppola. E in effetti l’impressione che si ha è quella di partecipare a una di quelle serate in cui qualcuno ti tortura sottoponendoti le diapositive della sua infanzia. Proprio per questo l’unica cosa che se ne trae è questa: se Francis Ford Coppola invece di trattare Sofia con tanta condiscendenza le avesse tirato un bel paio di calci nel culo da piccola, forse la regista sarebbe cresciuta meno viziata e avrebbe raccontato storie che interessano alla gente.
Comments (2)
che scoppola! e.
L’hai visto, eh?