Per motivi troppo lunghi da spiegare e per me tuttora insondabili Giovanni Mari, già professore ordinario di Storia e Filosofia presso l’Università di Firenze e presidente dalla rivista “Iride”, ha chiesto un mio contributo personale a commento dell’opera la “Città del lavoro” di Bruno Trentin (pubblicata da Feltrinelli nel 1997 e ripubblicata da Firenze University Press nel 2014). Il volume dal titolo “Il lavoro dopo il Novecento: da produttori ad attori sociali” è appena uscito a cura della Firenze University Press e raccoglie 34 contributi di intellettuali, accademici, professori universitari e sindacalisti (compresa Susanna Camusso).
Più il contributo di un modestissimo pubblicitario come me.
Chi vuole può acquistare l’intero volume qui, chi invece vuole leggere solo il mio intervento può farlo di seguito.
Ho iniziato a lavorare nel 1991. Ero un giovane copywriter diplomato all’Accademia di Comunicazione di Milano che aveva coronato un sogno: farsi assumere in un’agenzia di pubblicità. La mia attenzione era assorbita dal settore che stavo imparando a conoscere, quello della comunicazione, mentre l’attenzione del mondo si rivolgeva verso un paese lontano, deserto, dove si stava combattendo una guerra.
La prima guerra del Golfo fu breve, dall’inizio dell’operazione Desert Storm fino alla conclusione passarono appena 42 giorni, ma fu definita la prima guerra del villaggio globale. Quasi dieci anni prima che Naomi Klein rendesse popolare il termine attraverso il suo libro No Logo, il concetto di globalizzazione iniziava a farsi spazio nelle nostre vite. Non so cosa scriveranno i libri di storia fra un paio di secoli, ma so che l’evento più importante di quell’anno per l’umanità non accadde in Kuwait ma, ironia della sorte, ebbe origine sei mesi dopo nel posto più pacifico e neutrale del mondo. Il 6 agosto 1991, presso il CERN di Ginevra, l’informatico inglese Tim Berners-Lee pubblicò il primo sito web dando così vita al fenomeno “WWW”. Ci sarebbero voluti altri tre anni per inventare il primo browser, Mosaicon e quindi prima che internet diventasse di dominio pubblico, ma quel giorno nacque il world wide web per come lo conosciamo oggi.
Gli economisti definiscono terza rivoluzione industriale la trasformazione che va dalla conclusione della seconda guerra mondiale fino alla fine del Novecento, e probabilmente definiranno in futuro rivoluzione digitale quella che da quel 6 agosto 1991 arriva fino ai giorni nostri. Fatto sta che nell’arco di 5 anni, nel 1996, i computer collegati a internet erano già più di 10 milioni.
Nonostante fossi un giovane copywriter obnubilato dalla passione per il nuovo lavoro che avevo appena conquistato, in quel 1991 c’era un clima di cambiamento che era impossibile ignorare. Con il primo stipendio comprai un Macintosh Classic, il modello di base della Apple. Aveva 2 MB di memoria, appena sufficienti per aprire i programmi di word processing del tempo. Avevo visto un computer per la prima volta in vita mia due anni prima in Accademia di Comunicazione, ma avevo capito subito che era uno strumento incredibilmente utile per velocizzare il lavoro e, soprattutto, per migliorare la qualità della scrittura. Perché, a prescindere dall’aspetto romantico delle vecchie macchine per scrivere, un software di word processing permetteva di revisionare i testi in maniera più efficace. Ricordo gli sguardi stupiti e scettici dei miei colleghi il giorno in cui installai il mio Macintosh Classic sulla scrivania dell’ufficio. Era la prima volta che vedevano un computer in un’agenzia di pubblicità. Non capivano né lo scopo né il motivo per cui io utilizzassi un oggetto personale per lavorare, ma lo avrebbero capito meno di un anno dopo quando l’amministratore delegato dell’agenzia, per stare al passo con le altre realtà italiane, avrebbe acquistato i computer per tutti e iscritto i miei colleghi a corsi di aggiornamento, ma per un paio di mesi dovetti subire le battute ironiche dei miei compagni di lavoro. Quella fu la prima volta che feci una riflessione sull’importanza dell’aggiornamento e sulla tendenza di resistere ai cambiamenti della maggioranza delle persone.
Tra i miei colleghi ce n’era uno che si chiamava Marco e faceva l’esecutivista. Il suo lavoro consisteva nel preparare gli esecutivi per la stampa degli annunci pubblicitari. I suoi strumenti erano la colla e il bisturi, e la sua professione richiedeva una cura maniacale e una pazienza certosina. Ogni giorno ritagliava decine di cartoni della stessa dimensione e ci incollava sopra le pellicole che poi sarebbero servite per creare gli impianti per la stampa offset. Essendo il più giovane dei copywriter, io ero responsabile dell’ultima correzione delle bozze che facevo proprio sugli stamponi preparati da Marco. Se trovavo un errore lo segnavo con la matita sul foglio di carta trasparente che li ricopriva, dopodiché Marco lo correggeva. Per intenderci: se io trovavo una parola con una “elle” in più, Marco ritagliava con il suo bisturi quella “elle”, anche se era corpo cinque, e poi riavvicinava il resto della parola, tagliando e incollando con incredibile precisione. Adesso quella professione pare insensata, ma era lo stesso lavoro che veniva fatto in tutte le agenzie e, immagino, anche in tutte le redazioni di quotidiani e di periodici. Di lì a poco, comunque, le applicazioni di word processing non avrebbero cambiato solo il mio mestiere, avrebbero rivoluzionato soprattutto quello di Marco. Quella dell’esecutivista, infatti, fu la prima professione che vidi scomparire in vita mia. O, almeno, che vidi trasformarsi nel giro di pochissimo tempo.
Marco era un ragazzo simpatico e socievole, ma aveva una mentalità rigida. Aveva fatto una scuola di grafica che gli aveva insegnato a usare il bisturi e la colla e non voleva ricominciare da zero. Sapeva di essere bravo in quello che faceva e rimettersi in discussione significava intaccare quella sicurezza che si era creato dopo anni di scuola professionale. L’agenzia gli propose di pagargli un corso di aggiornamento per imparare a usare il computer e fare gli esecutivi così come si sarebbero fatti negli anni a seguire, ma lui rifiutò. Voleva fare il suo lavoro, quello che sapeva fare e per cui era stato assunto, non ne voleva imparare uno nuovo. Trovò poi lavoro vicino a casa sua, nella provincia di Varese, in uno studio grafico che non era tecnologicamente aggiornato come uno di Milano ma che lo sarebbe stato presto. Mi capitò di risentirlo qualche anno dopo: era rimasto disoccupato ma, invece di aggiornarsi e imparare a usare il computer, stava cercando di trovare un impiego in un settore completamente diverso a quello della grafica.
La storia di Marco è sempre stata un monito per me, durante tutta la mia carriera professionale. Oltre a rappresentare un esempio dell’incapacità di adattamento di alcuni in ambito lavorativo, e quindi dell’esigenza della flessibilità per come la intendeva Trentin e non secondo l’interpretazione dell’attuale pensiero liberista, introduce due aspetti che ho sempre guardato con attenzione da quando ho deciso di rinunciare al lavoro dipendente per diventare un imprenditore e aprire la mia agenzia di pubblicità.
Il primo di questi due aspetti è la necessità di interpretare i fenomeni contemporanei e prevedere i cambiamenti in atto nella società e nella tecnologia. Guardare al futuro, cercare di immaginare cosa si modificherà ma soprattutto avere il coraggio di cambiare lo status quo e affrontare le evoluzioni sono a mio parere qualità imprescindibili per un imprenditore. Ciò che fa di una persona un imprenditore non è tanto la disponibilità di un capitale quanto la visione e la propensione al rischio. Il capitale è importante perché permette di fare investimenti in ricerca e sviluppo, ma se è utilizzato solo per produrre altro capitale porta a una strada arida e senza uscita. Kodak, Motorola e Blockbuster erano aziende globali e gigantesche che pensavamo immortali ma che invece non hanno saputo reggere il cambiamento e sono sparite. Apple, Google e Facebook sono aziende che, grazie alla loro forte spinta evolutiva, sono riuscite a dominare i rispettivi settori nel giro di pochi anni. La crisi dell’economia italiana è soprattutto una crisi dell’imprenditoria, dato che oggi sono pochi gli imprenditori capaci di conquistare il mondo con le proprie idee, molti di più sono quelli che si focalizzano sulla gestione finanziaria e su quella fiscale. Il caso più eclatante è naturalmente quello di Fiat, oggi FCA, ma anche il campo della comunicazione è pieno di esempi significativi in tal senso. Dopo il settore tecnologico, la comunicazione è il comparto a maggiore rischio obsolescenza. Basti pensare che la radio ha impiegato 38 anni per raggiungere 50 milioni di ascoltatori, la tv ne ha impiegati 13 per raggiungerne lo stesso numero, Internet solo 4 anni e Facebook ancora meno: in 9 mesi è arrivato ad avere 100 milioni di iscritti. Per cinquant’anni un uomo di comunicazione doveva conoscere solo quattro media (affissione, stampa, radio e televisione), mentre negli ultimi dieci, a causa dell’avvento di internet e della nascita dei social network, questi media si sono moltiplicati. E continuano a nascere ogni giorno nuovi modi per comunicare. Il problema è che questo periodo ha coinciso anche con una crisi economica che ha portato al taglio delle risorse nelle agenzie pubblicitarie piuttosto che al loro aggiornamento. Se si guarda il bilancio di un’agenzia di pubblicità, il costo più importante non è quello di impianti e di macchinari, bensì il costo del personale. Le persone rappresentano la ricchezza di un’azienda di comunicazione, ciò che fa la differenza fra un’agenzia e un’altra: le strutture di successo sono quelle che riescono a far esprimere al meglio le persone. Oggi il mercato pubblicitario italiano è in mano a network internazionali che hanno scientemente deciso di limitarsi a presidiare il nostro Paese ma hanno rinunciato a investirci perché non lo ritengono più profittevole o, almeno, non altrettanto profittevole di altri mercati mondiali emergenti. L’Italia oggi è sfruttata da queste multinazionali della comunicazione come cash cow (mucca da mungere): i manager locali di queste agenzie vengono costretti a rispettare rigidi obiettivi trimestrali, le filiali italiane vengono spremute e gli utili esportati e reinvestiti all’est verso mercati più floridi e in sviluppo A farne le spese sono i lavoratori delle agenzie sacrificati nell’ottica del profitto a breve termine. Secondo alcuni dati pubblicati in passato da AssoCom, la più importante associazione di categoria del settore, tra il 1998 e il 2008 sono andati perduti circa il 40% degli impieghi in comunicazione. E il monitoraggio si è fermato al 2008, senza considerare gli anni colpiti più duramente dalla crisi. Ma la perdita di occupazione non è stato l’aspetto peggiore. A volte le selezioni, per quanto crudeli, permettono a un ambiente di rigenerarsi. Il problema più grande è stato che il settore non ha trovato altro modo di sopravvivere alla crisi che tramite un continuo processo di dequalificazione. Dapprima sono state tagliate le risorse intermedie, quelle che trasmettevano il mestiere (mestiere il quale, nonostante la costante evoluzione tecnologica, è pur sempre fatto di pensiero e di processi basati sull’esperienza). Dopodiché le agenzie si sono riempite di stagisti, e cioè di personale scarsamente qualificato e retribuito che raramente ha potuto vedere la loro posizione evolvere in un vero contratto di lavoro, oltre che di precari a progetto oppure di partite IVA. Risultato: un evidente scadimento del livello qualitativo della comunicazione italiana e la perdita del riconoscimento di un ruolo consulenziale da parte delle aziende che non vedono più le agenzie come un partner strategico ma come una mera commodity.
Il secondo aspetto che si evince dalla storia di Marco riguarda naturalmente l’importanza di essere sempre aggiornati, specie per chi lavora in un settore competitivo come quello della comunicazione. Non solo: se partiamo dalla prospettiva di un datore di lavoro, evidenzia anche la capacità di trasmettere ai dipendenti la necessità di aggiornarsi. Paradossalmente, riesco a comprendere l’atteggiamento di Marco più oggi che sono un imprenditore che venticinque anni fa che ero un dipendente. Allora pensavo semplicemente che sbagliasse ad affrontare il cambiamento, mentre oggi, forse perché ho molta più esperienza, credo che il management dell’azienda non sia riuscito a trasmettere a Marco le dovute rassicurazioni.
All’interno di un’agenzia di pubblicità si possono incontrare due tipologie di creativi: i Curiosi e i Dogmatici. I primi sono i creativi puri, quelli che utilizzano come combustibile la passione e la curiosità. Hanno molti interessi anche al di fuori del lavoro e assorbono come spugne ogni più piccola novità. Si nutrono quotidianamente di cose belle, intelligenti e originali e, proprio per questo, producono idee brillanti e affascinanti. Non hanno bisogno di essere stimolati da altri: si tengono aggiornati in maniera autonoma su ciò che gli interessa e su ciò che riguarda il loro mestiere. Hanno due soli limiti: soffrono il lavoro ripetitivo e, proprio perché investono molta passione nel lavoro, sono vittime della frustrazione quando i progetti non vanno come loro auspicano. È evidente che i Curiosi sono la tipologia di creativi che ogni agenzia vorrebbe avere, ma è altrettanto vero che non si può avere una squadra imbottita di centravanti, altrimenti nessuno si occuperebbe del day by day. E poi ci sono i Dogmatici, i quali trovano rassicurante la routine e sono in grado di produrre lavoro di qualità media con grande costanza. Il loro limite, all’opposto dei Curiosi, è che faticano a rimettere in discussione sia le loro capacità sia quello che hanno imparato in passato. Qualcuno gli ha insegnato che il lavoro deve essere fatto così e loro lo fanno così. Non importa se nel frattempo il mondo è cambiato, perché loro trovano rassicurante muoversi in un territorio che conoscono. Sono creativi stanziali, che non sono mossi dalla curiosità di scoprire nuove frontiere. Dal punto di vista della Neuroscienza, è come se non riuscissero a produrre un sufficiente livello di dopamina.
Ho suddiviso i creativi in due categorie: i Curiosi, che adesso potremmo definire Dopaminici, e i Dogmatici. Io ero e sono ancora un Dopaminico. Quello che ho ottenuto in carriera, nel campo creativo, lo devo quasi esclusivamente a questa mia voglia di andare avanti e di non accontentarmi. Non è un caso che ancora oggi, quasi alla soglia dei miei cinquant’anni, rimetta tutto in discussione e affianchi alla mia consolidata agenzia una nuova avventura: una sigla che combinerà tecnologia e creatività e che si chiamerà Hallelujah. Ma come imprenditore, da quando cioè sono passato da creativo singolo e autonomo a gestire altri creativi, ho dovuto imparare a stimolare e far lavorare al meglio anche i Dogmatici. Non è stato facile e non lo è tuttora. Qualcosa l’ho imparato analizzando gli errori che inevitabilmente ho commesso, qualcos’altro l’ho assorbito dalla mia esperienza personale. Perché sono una delle poche persone che ha avuto la fortuna di fare un percorso completo nel settore della comunicazione: ho lavorato come dipendente, ho lavorato come freelance e sto lavorando come imprenditore. E in questa veste cerco di mettere a frutto tutto ciò che ho vissuto e imparato.
Lavorare come creativo con contratto a tempo indeterminato in un’agenzia pubblicitaria verso la metà degli anni ’90 era una cosa piuttosto semplice. Non c’erano preoccupazioni di precariato e gli stipendi erano adeguati all’impegno, all’anzianità e alle mansioni che venivano richieste. Inoltre non si erano ancora messi in moto gli importanti processi evolutivi che avrebbero coinvolto la comunicazione di lì a pochi anni. Il lavoro era sempre lo stesso, cambiava solo a seconda del mezzo che si doveva affrontare, ma all’epoca i media erano solamente quattro: televisione, radio, stampa e affissione. Una volta usciti da una scuola specialistica come quella che avevo frequentato io, non erano richiesti grandi aggiornamenti professionali. L’unico aggiornamento, quello sì molto importante, consisteva nel nutrire la propria cultura personale oltre che tenersi aggiornati sulle campagne uscite nel resto del mondo. Ricordo che all’epoca quando si faceva un colloquio di lavoro, una delle prime domande che venivano fatte ai copywriter dagli allora direttori creativi era: “cosa stai leggendo? quali sono i tuoi autori preferiti?” A cui seguivano altre domande del tipo: “vai al cinema? cosa ti piace vedere? qual è l’ultima mostra che hai visto? quali sono i tuoi artisti preferiti?” C’era la convinzione che le qualità più importanti per un creativo fossero appunto la curiosità artistica, la capacità di assorbire da altre discipline, nonché dalla vita quotidiana, e non ultimo il gusto personale. Una convinzione che sopravvive ancora oggi, ma che rappresenta solo una parte di quello che viene visto come il bagaglio professionale minimo per un giovane che vuole fare il copywriter o l’art director. Vent’anni fa era più facile lavorare come creativi perché, oltre ai minori requisiti richiesti, c’era meno concorrenza interna ed esterna: il settore non era ancora in sofferenza e quindi non era competitivo come oggi. Soprattutto i tempi di elaborazione delle idee erano più comodi: un mese era il termine minimo per pensare a una campagna e i progetti più importanti non si accavallavano mai con il day by day. In sintesi c’era ancora il tempo per aspettare l’ispirazione piuttosto che chiudere un lavoro perché si erano consumate le ore a disposizione. L’unica frustrazione di quei tempi era dovuta al fatto che non tutte le idee potevano essere approvate nella forma desiderata, ma è ben poca cosa se la si paragona a quello che succede oggi.
Dopo qualche anno passato in agenzia sentii l’esigenza di uscire e fare il freelance. Mi sentivo ancora troppo giovane per restare rinchiuso in un’azienda e volevo affrontare quella che secondo me era un’esperienza da creativo puro. Non mi sbagliavo: quella da freelance, ovvero quella da libero professionista della comunicazione, è stata la cosa più gratificante e liberatoria che ricordo di aver fatto durante la mia carriera. E credo che, se ci fossero ancora i presupposti, un creativo dovrebbe lavorare come autonomo perché rappresenta il modo migliore per esprimere le proprie qualità. Per fortuna verso la fine degli anni ’90, quando io feci questa scelta, i presupposti c’erano. Mentre adesso non ci sono più. E non ci sono perché nel frattempo sono crollati i compensi e quella che ieri era una scelta di indipendenza oggi è la maggior parte delle volte l’effetto di una costrizione da precariato. Prima del 2000 fare il freelance in comunicazione significava essere un professionista affermato, selezionare le opportunità e realizzare campagne importanti, con ritorni economici altrettanto interessanti. Oggi significa essere un lavoratore con partita IVA e quindi sfruttato al massimo. Il passaggio da dipendente a libero professionista è ciò che più mi ha cambiato, sia personalmente, sia professionalmente e soprattutto ciò che più mi ha maturato. La maturità è, a mio parere, la qualità più importante che un creativo deve avere per affrontare il lavoro in maniera autonoma. Perché ti dà il coraggio necessario per rinunciare alla sicurezza dell’impiego fisso (questo se parliamo di vent’anni fa; oggi credo sia un modo di pensare inesistente nelle menti delle nuove generazioni) e perché ti permette di affrontare il lavoro con lucidità. Ogni buon creativo rimane fanciullo dentro, altrimenti non potrebbe attingere alla propria immaginazione. Gestire questo aspetto non è facile, anzi, sono pochi i creativi che riescono a scindere la loro parte infantile da quella razionale e adulta. Questo fa sì che la maggior parte dei creativi conservino atteggiamenti immaturi che vanno in contrasto con l’esigenza di una forte deontologia professionale. Esempi tipici di questa immaturità sono l’attaccamento alle idee a prescindere, anche quando sono in evidente contrasto con l’esigenza della committenza, e il pervicace se non ottuso bisogno di vedersi ricompensati con qualche premio di categoria, quindi gratificazioni esterne che compensino le fragilità emotive interiori. Ma quando si vuole fare il creativo in forma autonoma queste fragilità vanno superate, e lo si può fare solo grazie alla maturità. Un freelance non vive solo di idee. Vive anche della capacità di procurarsi lavoro, completarlo nei tempi e nei modi prestabiliti e, soprattutto, rapportarsi con un mondo che il creativo medio tende a evitare, ovvero la gestione economica, finanziaria e fiscale. È difficile ammetterlo, ma il successo di un freelance dipende in minima parte dalla capacità di trovare le idee migliori quanto dalla sua capacità di auto amministrarsi. Questo tema è particolarmente attuale: un freelance deve essere bravo a richiedere giusti compensi che gli permettano di sopravvivere, pagare le bollette e le tasse, perché non ha più alle sue spalle un’agenzia-mamma che si occupa di tutto.
Senza l’esperienza da lavoratore autonomo non avrei potuto fare l’imprenditore, che è stata la conseguenza del desiderio di voler fare un ulteriore passo avanti e quindi un effetto del mio sistema dopaminico sviluppato. Ma se l’esperienza da creativo autonomo è stata propedeutica per fare l’imprenditore, gli anni passati come dipendente sono stati addirittura più utili. Senza questa fase della mia carriera avrei serie difficoltà a comprendere i creativi che gestisco oggi. O, sarebbe più corretto dire, cerco di gestire. Un creativo infatti è un lavoratore complesso e delicato, questo perché il suo lavoro è astratto e consiste nel generare idee. E sebbene un professionista della creatività con un buon livello di esperienza è sempre in grado di produrre idee dagli standard sufficientemente elevati, è impossibile negare che la qualità dell’output creativo è condizionata da fattori esterni e personali. Da quando ho iniziato a fare il direttore creativo, e cioè ho cominciato a valutare e sistemare il lavoro creativo degli altri, ho compreso l’importanza di una caratteristica come la sensibilità. Voglio dire: una delle cose più importanti quando si assume il ruolo di direttore creativo è riuscire a comprendere la personalità del creativo che hai di fronte. Se è un Dopaminico sai che non ha certo bisogno di stimoli ma, anzi, di rassicurazioni. Stimolarlo ulteriormente potrebbe mandarlo fuori giri, cioè in ansia da prestazione e il risultato sarebbe negativo. Al contrario, il creativo Dogmatico ha bisogno di motivazioni continue, ma bisogna essere abbastanza intelligenti da non fargliele sentire come imposizioni. Però comprendere la personalità di chi si ha davanti non è sufficiente, perché la stessa persona può attraversare negli anni, nei mesi, o addirittura nella stessa settimana, fasi personali che incidono sulla sua produttività. Dopo tanti errori e tentativi ho imparato che l’approccio diretto e autoritario è controproducente, mentre il dialogo e la pazienza rappresentano la soluzione migliore. I creativi non producono utilizzando materiale esterno, ma usano una materia prima molto intima: l’immaginazione. Ciò fa sì che siano particolarmente suscettibili quando gli si rivolge una critica, o anche una semplice osservazione. Spiegare con calma le ragioni, discutere insieme dei motivi che portano a fare certe scelte, risulta sempre la cosa più efficace anche se non certo la più veloce. Lo stesso concetto vale anche quando si parla di aggiornamento. Ultimamente, per far capire ai miei dipendenti l’importanza di fare tutta una serie di corsi per imparare nuovi software, ho preparato una lunghissima presentazione dove ho raccontato la situazione del mercato, gli obiettivi dell’agenzia, i risultati di fatturato… Questo perché ho imparato che coinvolgere i propri dipendenti in ogni aspetto societario li fa sentire partecipi di un progetto e quindi più recettivi e positivi. Tutte cose che ho dovuto imparare da solo, però, in quanto il rapporto con i dipendenti è sempre stato diretto e mai gestito attraverso intermediari. I sindacati sono totalmente assenti dalle agenzie pubblicitarie; io li ho visti intervenire solo un paio di volte in occasione di licenziamenti di massa in network internazionali, ma anche in quel caso esclusivamente per trattare la dimensione delle buonuscite. E i motivi di questa assenza nel mondo della comunicazione sono due. Il primo è l’obsolescenza del modello sindacale, ancora troppo focalizzato nella tutela di lavori in via di estinzione. Il secondo è che, inconsciamente, c’è sempre stata una demonizzazione del mestiere di pubblicitario da parte di coloro che giudicano nobile solo la vecchia lotta operaia. Una visione ottusa, a mio parere, dato che nessun sindacato ha ancora avuto la lungimiranza di occuparsi del popolo delle partite Iva, lavoratori che oggi vengono sfruttati molto di più di categorie storicamente più proletarie.
Per motivi troppo lunghi da spiegare e per me tuttora insondabili Giovanni Mari, già professore ordinario di Storia e Filosofia presso l’Università di Firenze e presidente dalla rivista “Iride”, ha chiesto un mio contributo personale a commento dell’opera la “Città del lavoro” di Bruno Trentin (pubblicata da Feltrinelli nel 1997 e ripubblicata da Firenze University Press nel 2014). Il volume dal titolo “Il lavoro dopo il Novecento: da produttori ad attori sociali” è appena uscito a cura della Firenze University Press e raccoglie 34 contributi di intellettuali, accademici, professori universitari e sindacalisti (compresa Susanna Camusso).
Più il contributo di un modestissimo pubblicitario come me.
Chi vuole può acquistare l’intero volume qui, chi invece vuole leggere solo il mio intervento può farlo di seguito.
Ho iniziato a lavorare nel 1991. Ero un giovane copywriter diplomato all’Accademia di Comunicazione di Milano che aveva coronato un sogno: farsi assumere in un’agenzia di pubblicità. La mia attenzione era assorbita dal settore che stavo imparando a conoscere, quello della comunicazione, mentre l’attenzione del mondo si rivolgeva verso un paese lontano, deserto, dove si stava combattendo una guerra.
La prima guerra del Golfo fu breve, dall’inizio dell’operazione Desert Storm fino alla conclusione passarono appena 42 giorni, ma fu definita la prima guerra del villaggio globale. Quasi dieci anni prima che Naomi Klein rendesse popolare il termine attraverso il suo libro No Logo, il concetto di globalizzazione iniziava a farsi spazio nelle nostre vite. Non so cosa scriveranno i libri di storia fra un paio di secoli, ma so che l’evento più importante di quell’anno per l’umanità non accadde in Kuwait ma, ironia della sorte, ebbe origine sei mesi dopo nel posto più pacifico e neutrale del mondo. Il 6 agosto 1991, presso il CERN di Ginevra, l’informatico inglese Tim Berners-Lee pubblicò il primo sito web dando così vita al fenomeno “WWW”. Ci sarebbero voluti altri tre anni per inventare il primo browser, Mosaicon e quindi prima che internet diventasse di dominio pubblico, ma quel giorno nacque il world wide web per come lo conosciamo oggi.
Gli economisti definiscono terza rivoluzione industriale la trasformazione che va dalla conclusione della seconda guerra mondiale fino alla fine del Novecento, e probabilmente definiranno in futuro rivoluzione digitale quella che da quel 6 agosto 1991 arriva fino ai giorni nostri. Fatto sta che nell’arco di 5 anni, nel 1996, i computer collegati a internet erano già più di 10 milioni.
Nonostante fossi un giovane copywriter obnubilato dalla passione per il nuovo lavoro che avevo appena conquistato, in quel 1991 c’era un clima di cambiamento che era impossibile ignorare. Con il primo stipendio comprai un Macintosh Classic, il modello di base della Apple. Aveva 2 MB di memoria, appena sufficienti per aprire i programmi di word processing del tempo. Avevo visto un computer per la prima volta in vita mia due anni prima in Accademia di Comunicazione, ma avevo capito subito che era uno strumento incredibilmente utile per velocizzare il lavoro e, soprattutto, per migliorare la qualità della scrittura. Perché, a prescindere dall’aspetto romantico delle vecchie macchine per scrivere, un software di word processing permetteva di revisionare i testi in maniera più efficace. Ricordo gli sguardi stupiti e scettici dei miei colleghi il giorno in cui installai il mio Macintosh Classic sulla scrivania dell’ufficio. Era la prima volta che vedevano un computer in un’agenzia di pubblicità. Non capivano né lo scopo né il motivo per cui io utilizzassi un oggetto personale per lavorare, ma lo avrebbero capito meno di un anno dopo quando l’amministratore delegato dell’agenzia, per stare al passo con le altre realtà italiane, avrebbe acquistato i computer per tutti e iscritto i miei colleghi a corsi di aggiornamento, ma per un paio di mesi dovetti subire le battute ironiche dei miei compagni di lavoro. Quella fu la prima volta che feci una riflessione sull’importanza dell’aggiornamento e sulla tendenza di resistere ai cambiamenti della maggioranza delle persone.
Tra i miei colleghi ce n’era uno che si chiamava Marco e faceva l’esecutivista. Il suo lavoro consisteva nel preparare gli esecutivi per la stampa degli annunci pubblicitari. I suoi strumenti erano la colla e il bisturi, e la sua professione richiedeva una cura maniacale e una pazienza certosina. Ogni giorno ritagliava decine di cartoni della stessa dimensione e ci incollava sopra le pellicole che poi sarebbero servite per creare gli impianti per la stampa offset. Essendo il più giovane dei copywriter, io ero responsabile dell’ultima correzione delle bozze che facevo proprio sugli stamponi preparati da Marco. Se trovavo un errore lo segnavo con la matita sul foglio di carta trasparente che li ricopriva, dopodiché Marco lo correggeva. Per intenderci: se io trovavo una parola con una “elle” in più, Marco ritagliava con il suo bisturi quella “elle”, anche se era corpo cinque, e poi riavvicinava il resto della parola, tagliando e incollando con incredibile precisione. Adesso quella professione pare insensata, ma era lo stesso lavoro che veniva fatto in tutte le agenzie e, immagino, anche in tutte le redazioni di quotidiani e di periodici. Di lì a poco, comunque, le applicazioni di word processing non avrebbero cambiato solo il mio mestiere, avrebbero rivoluzionato soprattutto quello di Marco. Quella dell’esecutivista, infatti, fu la prima professione che vidi scomparire in vita mia. O, almeno, che vidi trasformarsi nel giro di pochissimo tempo.
Marco era un ragazzo simpatico e socievole, ma aveva una mentalità rigida. Aveva fatto una scuola di grafica che gli aveva insegnato a usare il bisturi e la colla e non voleva ricominciare da zero. Sapeva di essere bravo in quello che faceva e rimettersi in discussione significava intaccare quella sicurezza che si era creato dopo anni di scuola professionale. L’agenzia gli propose di pagargli un corso di aggiornamento per imparare a usare il computer e fare gli esecutivi così come si sarebbero fatti negli anni a seguire, ma lui rifiutò. Voleva fare il suo lavoro, quello che sapeva fare e per cui era stato assunto, non ne voleva imparare uno nuovo. Trovò poi lavoro vicino a casa sua, nella provincia di Varese, in uno studio grafico che non era tecnologicamente aggiornato come uno di Milano ma che lo sarebbe stato presto. Mi capitò di risentirlo qualche anno dopo: era rimasto disoccupato ma, invece di aggiornarsi e imparare a usare il computer, stava cercando di trovare un impiego in un settore completamente diverso a quello della grafica.
La storia di Marco è sempre stata un monito per me, durante tutta la mia carriera professionale. Oltre a rappresentare un esempio dell’incapacità di adattamento di alcuni in ambito lavorativo, e quindi dell’esigenza della flessibilità per come la intendeva Trentin e non secondo l’interpretazione dell’attuale pensiero liberista, introduce due aspetti che ho sempre guardato con attenzione da quando ho deciso di rinunciare al lavoro dipendente per diventare un imprenditore e aprire la mia agenzia di pubblicità.
Il primo di questi due aspetti è la necessità di interpretare i fenomeni contemporanei e prevedere i cambiamenti in atto nella società e nella tecnologia. Guardare al futuro, cercare di immaginare cosa si modificherà ma soprattutto avere il coraggio di cambiare lo status quo e affrontare le evoluzioni sono a mio parere qualità imprescindibili per un imprenditore. Ciò che fa di una persona un imprenditore non è tanto la disponibilità di un capitale quanto la visione e la propensione al rischio. Il capitale è importante perché permette di fare investimenti in ricerca e sviluppo, ma se è utilizzato solo per produrre altro capitale porta a una strada arida e senza uscita. Kodak, Motorola e Blockbuster erano aziende globali e gigantesche che pensavamo immortali ma che invece non hanno saputo reggere il cambiamento e sono sparite. Apple, Google e Facebook sono aziende che, grazie alla loro forte spinta evolutiva, sono riuscite a dominare i rispettivi settori nel giro di pochi anni. La crisi dell’economia italiana è soprattutto una crisi dell’imprenditoria, dato che oggi sono pochi gli imprenditori capaci di conquistare il mondo con le proprie idee, molti di più sono quelli che si focalizzano sulla gestione finanziaria e su quella fiscale. Il caso più eclatante è naturalmente quello di Fiat, oggi FCA, ma anche il campo della comunicazione è pieno di esempi significativi in tal senso. Dopo il settore tecnologico, la comunicazione è il comparto a maggiore rischio obsolescenza. Basti pensare che la radio ha impiegato 38 anni per raggiungere 50 milioni di ascoltatori, la tv ne ha impiegati 13 per raggiungerne lo stesso numero, Internet solo 4 anni e Facebook ancora meno: in 9 mesi è arrivato ad avere 100 milioni di iscritti. Per cinquant’anni un uomo di comunicazione doveva conoscere solo quattro media (affissione, stampa, radio e televisione), mentre negli ultimi dieci, a causa dell’avvento di internet e della nascita dei social network, questi media si sono moltiplicati. E continuano a nascere ogni giorno nuovi modi per comunicare. Il problema è che questo periodo ha coinciso anche con una crisi economica che ha portato al taglio delle risorse nelle agenzie pubblicitarie piuttosto che al loro aggiornamento. Se si guarda il bilancio di un’agenzia di pubblicità, il costo più importante non è quello di impianti e di macchinari, bensì il costo del personale. Le persone rappresentano la ricchezza di un’azienda di comunicazione, ciò che fa la differenza fra un’agenzia e un’altra: le strutture di successo sono quelle che riescono a far esprimere al meglio le persone. Oggi il mercato pubblicitario italiano è in mano a network internazionali che hanno scientemente deciso di limitarsi a presidiare il nostro Paese ma hanno rinunciato a investirci perché non lo ritengono più profittevole o, almeno, non altrettanto profittevole di altri mercati mondiali emergenti. L’Italia oggi è sfruttata da queste multinazionali della comunicazione come cash cow (mucca da mungere): i manager locali di queste agenzie vengono costretti a rispettare rigidi obiettivi trimestrali, le filiali italiane vengono spremute e gli utili esportati e reinvestiti all’est verso mercati più floridi e in sviluppo A farne le spese sono i lavoratori delle agenzie sacrificati nell’ottica del profitto a breve termine. Secondo alcuni dati pubblicati in passato da AssoCom, la più importante associazione di categoria del settore, tra il 1998 e il 2008 sono andati perduti circa il 40% degli impieghi in comunicazione. E il monitoraggio si è fermato al 2008, senza considerare gli anni colpiti più duramente dalla crisi. Ma la perdita di occupazione non è stato l’aspetto peggiore. A volte le selezioni, per quanto crudeli, permettono a un ambiente di rigenerarsi. Il problema più grande è stato che il settore non ha trovato altro modo di sopravvivere alla crisi che tramite un continuo processo di dequalificazione. Dapprima sono state tagliate le risorse intermedie, quelle che trasmettevano il mestiere (mestiere il quale, nonostante la costante evoluzione tecnologica, è pur sempre fatto di pensiero e di processi basati sull’esperienza). Dopodiché le agenzie si sono riempite di stagisti, e cioè di personale scarsamente qualificato e retribuito che raramente ha potuto vedere la loro posizione evolvere in un vero contratto di lavoro, oltre che di precari a progetto oppure di partite IVA. Risultato: un evidente scadimento del livello qualitativo della comunicazione italiana e la perdita del riconoscimento di un ruolo consulenziale da parte delle aziende che non vedono più le agenzie come un partner strategico ma come una mera commodity.
Il secondo aspetto che si evince dalla storia di Marco riguarda naturalmente l’importanza di essere sempre aggiornati, specie per chi lavora in un settore competitivo come quello della comunicazione. Non solo: se partiamo dalla prospettiva di un datore di lavoro, evidenzia anche la capacità di trasmettere ai dipendenti la necessità di aggiornarsi. Paradossalmente, riesco a comprendere l’atteggiamento di Marco più oggi che sono un imprenditore che venticinque anni fa che ero un dipendente. Allora pensavo semplicemente che sbagliasse ad affrontare il cambiamento, mentre oggi, forse perché ho molta più esperienza, credo che il management dell’azienda non sia riuscito a trasmettere a Marco le dovute rassicurazioni.
All’interno di un’agenzia di pubblicità si possono incontrare due tipologie di creativi: i Curiosi e i Dogmatici. I primi sono i creativi puri, quelli che utilizzano come combustibile la passione e la curiosità. Hanno molti interessi anche al di fuori del lavoro e assorbono come spugne ogni più piccola novità. Si nutrono quotidianamente di cose belle, intelligenti e originali e, proprio per questo, producono idee brillanti e affascinanti. Non hanno bisogno di essere stimolati da altri: si tengono aggiornati in maniera autonoma su ciò che gli interessa e su ciò che riguarda il loro mestiere. Hanno due soli limiti: soffrono il lavoro ripetitivo e, proprio perché investono molta passione nel lavoro, sono vittime della frustrazione quando i progetti non vanno come loro auspicano. È evidente che i Curiosi sono la tipologia di creativi che ogni agenzia vorrebbe avere, ma è altrettanto vero che non si può avere una squadra imbottita di centravanti, altrimenti nessuno si occuperebbe del day by day. E poi ci sono i Dogmatici, i quali trovano rassicurante la routine e sono in grado di produrre lavoro di qualità media con grande costanza. Il loro limite, all’opposto dei Curiosi, è che faticano a rimettere in discussione sia le loro capacità sia quello che hanno imparato in passato. Qualcuno gli ha insegnato che il lavoro deve essere fatto così e loro lo fanno così. Non importa se nel frattempo il mondo è cambiato, perché loro trovano rassicurante muoversi in un territorio che conoscono. Sono creativi stanziali, che non sono mossi dalla curiosità di scoprire nuove frontiere. Dal punto di vista della Neuroscienza, è come se non riuscissero a produrre un sufficiente livello di dopamina.
Ho suddiviso i creativi in due categorie: i Curiosi, che adesso potremmo definire Dopaminici, e i Dogmatici. Io ero e sono ancora un Dopaminico. Quello che ho ottenuto in carriera, nel campo creativo, lo devo quasi esclusivamente a questa mia voglia di andare avanti e di non accontentarmi. Non è un caso che ancora oggi, quasi alla soglia dei miei cinquant’anni, rimetta tutto in discussione e affianchi alla mia consolidata agenzia una nuova avventura: una sigla che combinerà tecnologia e creatività e che si chiamerà Hallelujah. Ma come imprenditore, da quando cioè sono passato da creativo singolo e autonomo a gestire altri creativi, ho dovuto imparare a stimolare e far lavorare al meglio anche i Dogmatici. Non è stato facile e non lo è tuttora. Qualcosa l’ho imparato analizzando gli errori che inevitabilmente ho commesso, qualcos’altro l’ho assorbito dalla mia esperienza personale. Perché sono una delle poche persone che ha avuto la fortuna di fare un percorso completo nel settore della comunicazione: ho lavorato come dipendente, ho lavorato come freelance e sto lavorando come imprenditore. E in questa veste cerco di mettere a frutto tutto ciò che ho vissuto e imparato.
Lavorare come creativo con contratto a tempo indeterminato in un’agenzia pubblicitaria verso la metà degli anni ’90 era una cosa piuttosto semplice. Non c’erano preoccupazioni di precariato e gli stipendi erano adeguati all’impegno, all’anzianità e alle mansioni che venivano richieste. Inoltre non si erano ancora messi in moto gli importanti processi evolutivi che avrebbero coinvolto la comunicazione di lì a pochi anni. Il lavoro era sempre lo stesso, cambiava solo a seconda del mezzo che si doveva affrontare, ma all’epoca i media erano solamente quattro: televisione, radio, stampa e affissione. Una volta usciti da una scuola specialistica come quella che avevo frequentato io, non erano richiesti grandi aggiornamenti professionali. L’unico aggiornamento, quello sì molto importante, consisteva nel nutrire la propria cultura personale oltre che tenersi aggiornati sulle campagne uscite nel resto del mondo. Ricordo che all’epoca quando si faceva un colloquio di lavoro, una delle prime domande che venivano fatte ai copywriter dagli allora direttori creativi era: “cosa stai leggendo? quali sono i tuoi autori preferiti?” A cui seguivano altre domande del tipo: “vai al cinema? cosa ti piace vedere? qual è l’ultima mostra che hai visto? quali sono i tuoi artisti preferiti?” C’era la convinzione che le qualità più importanti per un creativo fossero appunto la curiosità artistica, la capacità di assorbire da altre discipline, nonché dalla vita quotidiana, e non ultimo il gusto personale. Una convinzione che sopravvive ancora oggi, ma che rappresenta solo una parte di quello che viene visto come il bagaglio professionale minimo per un giovane che vuole fare il copywriter o l’art director. Vent’anni fa era più facile lavorare come creativi perché, oltre ai minori requisiti richiesti, c’era meno concorrenza interna ed esterna: il settore non era ancora in sofferenza e quindi non era competitivo come oggi. Soprattutto i tempi di elaborazione delle idee erano più comodi: un mese era il termine minimo per pensare a una campagna e i progetti più importanti non si accavallavano mai con il day by day. In sintesi c’era ancora il tempo per aspettare l’ispirazione piuttosto che chiudere un lavoro perché si erano consumate le ore a disposizione. L’unica frustrazione di quei tempi era dovuta al fatto che non tutte le idee potevano essere approvate nella forma desiderata, ma è ben poca cosa se la si paragona a quello che succede oggi.
Dopo qualche anno passato in agenzia sentii l’esigenza di uscire e fare il freelance. Mi sentivo ancora troppo giovane per restare rinchiuso in un’azienda e volevo affrontare quella che secondo me era un’esperienza da creativo puro. Non mi sbagliavo: quella da freelance, ovvero quella da libero professionista della comunicazione, è stata la cosa più gratificante e liberatoria che ricordo di aver fatto durante la mia carriera. E credo che, se ci fossero ancora i presupposti, un creativo dovrebbe lavorare come autonomo perché rappresenta il modo migliore per esprimere le proprie qualità. Per fortuna verso la fine degli anni ’90, quando io feci questa scelta, i presupposti c’erano. Mentre adesso non ci sono più. E non ci sono perché nel frattempo sono crollati i compensi e quella che ieri era una scelta di indipendenza oggi è la maggior parte delle volte l’effetto di una costrizione da precariato. Prima del 2000 fare il freelance in comunicazione significava essere un professionista affermato, selezionare le opportunità e realizzare campagne importanti, con ritorni economici altrettanto interessanti. Oggi significa essere un lavoratore con partita IVA e quindi sfruttato al massimo. Il passaggio da dipendente a libero professionista è ciò che più mi ha cambiato, sia personalmente, sia professionalmente e soprattutto ciò che più mi ha maturato. La maturità è, a mio parere, la qualità più importante che un creativo deve avere per affrontare il lavoro in maniera autonoma. Perché ti dà il coraggio necessario per rinunciare alla sicurezza dell’impiego fisso (questo se parliamo di vent’anni fa; oggi credo sia un modo di pensare inesistente nelle menti delle nuove generazioni) e perché ti permette di affrontare il lavoro con lucidità. Ogni buon creativo rimane fanciullo dentro, altrimenti non potrebbe attingere alla propria immaginazione. Gestire questo aspetto non è facile, anzi, sono pochi i creativi che riescono a scindere la loro parte infantile da quella razionale e adulta. Questo fa sì che la maggior parte dei creativi conservino atteggiamenti immaturi che vanno in contrasto con l’esigenza di una forte deontologia professionale. Esempi tipici di questa immaturità sono l’attaccamento alle idee a prescindere, anche quando sono in evidente contrasto con l’esigenza della committenza, e il pervicace se non ottuso bisogno di vedersi ricompensati con qualche premio di categoria, quindi gratificazioni esterne che compensino le fragilità emotive interiori. Ma quando si vuole fare il creativo in forma autonoma queste fragilità vanno superate, e lo si può fare solo grazie alla maturità. Un freelance non vive solo di idee. Vive anche della capacità di procurarsi lavoro, completarlo nei tempi e nei modi prestabiliti e, soprattutto, rapportarsi con un mondo che il creativo medio tende a evitare, ovvero la gestione economica, finanziaria e fiscale. È difficile ammetterlo, ma il successo di un freelance dipende in minima parte dalla capacità di trovare le idee migliori quanto dalla sua capacità di auto amministrarsi. Questo tema è particolarmente attuale: un freelance deve essere bravo a richiedere giusti compensi che gli permettano di sopravvivere, pagare le bollette e le tasse, perché non ha più alle sue spalle un’agenzia-mamma che si occupa di tutto.
Senza l’esperienza da lavoratore autonomo non avrei potuto fare l’imprenditore, che è stata la conseguenza del desiderio di voler fare un ulteriore passo avanti e quindi un effetto del mio sistema dopaminico sviluppato. Ma se l’esperienza da creativo autonomo è stata propedeutica per fare l’imprenditore, gli anni passati come dipendente sono stati addirittura più utili. Senza questa fase della mia carriera avrei serie difficoltà a comprendere i creativi che gestisco oggi. O, sarebbe più corretto dire, cerco di gestire. Un creativo infatti è un lavoratore complesso e delicato, questo perché il suo lavoro è astratto e consiste nel generare idee. E sebbene un professionista della creatività con un buon livello di esperienza è sempre in grado di produrre idee dagli standard sufficientemente elevati, è impossibile negare che la qualità dell’output creativo è condizionata da fattori esterni e personali. Da quando ho iniziato a fare il direttore creativo, e cioè ho cominciato a valutare e sistemare il lavoro creativo degli altri, ho compreso l’importanza di una caratteristica come la sensibilità. Voglio dire: una delle cose più importanti quando si assume il ruolo di direttore creativo è riuscire a comprendere la personalità del creativo che hai di fronte. Se è un Dopaminico sai che non ha certo bisogno di stimoli ma, anzi, di rassicurazioni. Stimolarlo ulteriormente potrebbe mandarlo fuori giri, cioè in ansia da prestazione e il risultato sarebbe negativo. Al contrario, il creativo Dogmatico ha bisogno di motivazioni continue, ma bisogna essere abbastanza intelligenti da non fargliele sentire come imposizioni. Però comprendere la personalità di chi si ha davanti non è sufficiente, perché la stessa persona può attraversare negli anni, nei mesi, o addirittura nella stessa settimana, fasi personali che incidono sulla sua produttività. Dopo tanti errori e tentativi ho imparato che l’approccio diretto e autoritario è controproducente, mentre il dialogo e la pazienza rappresentano la soluzione migliore. I creativi non producono utilizzando materiale esterno, ma usano una materia prima molto intima: l’immaginazione. Ciò fa sì che siano particolarmente suscettibili quando gli si rivolge una critica, o anche una semplice osservazione. Spiegare con calma le ragioni, discutere insieme dei motivi che portano a fare certe scelte, risulta sempre la cosa più efficace anche se non certo la più veloce. Lo stesso concetto vale anche quando si parla di aggiornamento. Ultimamente, per far capire ai miei dipendenti l’importanza di fare tutta una serie di corsi per imparare nuovi software, ho preparato una lunghissima presentazione dove ho raccontato la situazione del mercato, gli obiettivi dell’agenzia, i risultati di fatturato… Questo perché ho imparato che coinvolgere i propri dipendenti in ogni aspetto societario li fa sentire partecipi di un progetto e quindi più recettivi e positivi. Tutte cose che ho dovuto imparare da solo, però, in quanto il rapporto con i dipendenti è sempre stato diretto e mai gestito attraverso intermediari. I sindacati sono totalmente assenti dalle agenzie pubblicitarie; io li ho visti intervenire solo un paio di volte in occasione di licenziamenti di massa in network internazionali, ma anche in quel caso esclusivamente per trattare la dimensione delle buonuscite. E i motivi di questa assenza nel mondo della comunicazione sono due. Il primo è l’obsolescenza del modello sindacale, ancora troppo focalizzato nella tutela di lavori in via di estinzione. Il secondo è che, inconsciamente, c’è sempre stata una demonizzazione del mestiere di pubblicitario da parte di coloro che giudicano nobile solo la vecchia lotta operaia. Una visione ottusa, a mio parere, dato che nessun sindacato ha ancora avuto la lungimiranza di occuparsi del popolo delle partite Iva, lavoratori che oggi vengono sfruttati molto di più di categorie storicamente più proletarie.