Ogni tanto immagino la storia di un creativo pubblicitario che si risveglia dal coma dopo vent’anni: c’è finito nel 1998 in seguito a una settimana insonne per chiudere la mega-presentazione di una gara.
Appena lo dimettono, la prima cosa che fa è quella di tornare in agenzia.
Perché un creativo anni ’90 ha nel suo DNA un retaggio post-yuppista che lo obbliga a mettere il lavoro sempre al primo posto.
Peccato che non trovi più la sua agenzia.
O meglio: a quello stesso indirizzo trova un’agenzia di pubblicità, o qualcosa che gli somiglia, solo che ha un altro nome e non dà più lavoro a creativi umani ma a delle scimmie.
Scimmie che pigiano con efficienza sui tasti di Macintosh ultra-potenti e ultra-fighettosi.
Il creativo esce sconvolto dall’agenzia e scende in metro.
Anche qui è cambiato tutto: il vagone è pieno di scimmie autistiche la cui attenzione è catturata da scintillanti iPhone. La loro immobilità è rotta solo da leggeri movimenti del pollice opponibile che usano per scrollare lo schermo dei piccoli monoliti digitali.
Il sospetto del creativo è questo: si è risvegliato dal coma in un universo parallelo ed è vittima di un futuro distopico. Anche perché le scimmie parlano un linguaggio incomprensibile. E passi pure che non capisce il linguaggio delle scimmie della strada, ma quello che conosce meglio, cioè il linguaggio dell’agenzia di pubblicità, è completamente diverso da quello che ricorda.
“Storytelling, engagement, call to action, schedulare, PED, reach, click through, funnel, lead…” ma che cazzo di modo d’esprimersi è mai questo?
Come un novello Charlton Heston, il creativo anni ’90 esplora le altre agenzie di pubblicità che conosceva un tempo ma scopre che la situazione è uguale dappertutto.
Dove una volta c’erano idee creative ora ci sono algoritmi, dove una volta c’era la capacità di analisi per risolvere problemi complessi ora c’è la ricerca maniacale d’efficienza per rispondere velocemente a piattaforme sempre più complicate.
E dappertutto ci sono scimmie.
Scimmie super-performanti che pigiano tasti di Mac ultra-potenti e ultra-fighettosi, ma che lavorano in un isolamento autistico, indifferenti fra loro e indifferenti ai bisogni e alle emozioni delle altre scimmie che passano il tempo davanti agli iPhone.
Nemmeno il tempo di confermare a se stesso che si è risvegliato in un universo parallelo, oppure che non si è svegliato affatto ma che sta facendo un brutto incubo nel suo lungo coma, che ritrova una vecchia cartellina, di quelle che una volta contenevano le presentazioni d’agenzia.
E sulla copertina c’è un vecchio logo che riconosce, quello dell’agenzia in cui lavorava.
E allora capisce: la sua vecchia agenzia, quella che già vent’anni prima portava il nome di gente morta, è morta a sua volta. E scopre che in tutti gli anni in cui è stato in coma l’evoluzione dell’advertising non è andata esattamente nella direzione che lui immaginava.
Fine della storia.
Inizio di una breve riflessione personale.
Il Pianeta delle Scimmie è un film tratto da un libro che voleva fare satira sociale: l’intelligenza umana non è una qualità fissa e può essere atrofizzata se data per scontata. E infatti il plot narrativo racconta di esseri umani che dominano il pianeta finché la loro compiacenza e presunzione non permette alle scimmie più industriose di rovesciarlo.
La stessa cosa è capitata tra ATL e Digital nel mondo della comunicazione.
Nessuno avrà da obiettare se affermo che oggi il Digital domina il nostro mondo: basta vedere come si stanno contraendo le agenzie tradizionali e di come invece stanno esplodendo le dimensioni e i fatturati di quelle Digital (almeno finché non scoppierà la bolla). Purtroppo, e qui sta la triste conclusione di questo post, la maggior parte del lavoro Digital che realizziamo oggi è fatto da scimmie per scimmie.
Almeno a mio parere.
È un Digital troppo verticale, magari infallibile nel colpire i singoli touchpoints, ma ignaro dei benefici che buone strategie di comunicazione a lungo termine possono dare.
O anche di strategie di comunicazione tout court.
Nessuna nostalgia degli anni ’90, ma forse è arrivato il momento di togliere il primato ai primati, cioè al Digital per come lo conosciamo oggi.
Già venti anni fa ci lamentavamo dell’effetto marmellata della pubblicità, ma cosa dovremo pensare oggi delle conseguenze di tutte queste nuove discipline, come il simpatico e pervasivo performance marketing? Forse dovremmo comprendere, usando una perifrasi, che stiamo rompendo i coglioni alle persone perché le trattiamo come scimmie.
Mi solleva sapere che non sono l’unico a pensarla così: Marc Pritchard, figura più autorevole di me in quanto Chief Brand Officer di Procter&Gamble, ha appena affermato che il più grande problema del nostro settore è che stiamo irritando i consumatori, che una volta venivano a contatto con lo stesso brand solo 2 o 3 volte al mese, mentre adesso tra le 20 e le 30.
Miracoli del re-targeting!
Il vecchio modello di agenzia è morto, non c’è dubbio, ma anche quello contemporaneo, costruito su una visione verticale del Digital, mostrerà presto i suoi limiti.
Ne sono convinto.
Resta una domanda da porsi: qual è il modello di agenzia del futuro?
I primi segnali puntano su modelli che integrano la capacità di comunicazione delle vecchie agenzie con la padronanza dei nuovi tecnicismi del digital. La fusione tra Young&Rubicam e VML va in questa direzione, ma soprattutto vanno in questa direzione i consumatori.
Secondo gli ultimi dati dell’Osservatorio Multicanalità del Politecnico di Milano, nel 2018 gli eShopper (quelli cioè che hanno comprato online almeno una volta nell’anno) sono saliti fino al 44% e sono ora rappresentati da 23 milioni di italiani, 2,5 milioni in più rispetto all’anno scorso. Ma questa percentuale si abbassa fino al 10% quando si tratta di beni di largo consumo. Ancora più importante sapere è che le persone che prendono la decisione d’acquisto direttamente in negozio, magari anche dopo essersi informate online, rappresentano pur sempre i 2/3 della popolazione italiana.
Traduzione: ancora tantissima gente.
E, dato ancora più interessante, per quanto riguarda la fruizione mediale il gap che c’è tra TV e Digital rimane sempre molto ampio: la TV ha una reach del 75,6% della popolazione italiana totale, mentre il Digital cresce, sì, ma si ferma ancora al 46,9%.
Ultimo dato da analizzare: oggi le percentuali di InfoShopper (coloro che si informano online ma poi comprano in negozio) e di ShowRoomers (quelli che fanno esattamente il contrario) si equivalgono: 52 e 48%.
Ho riportato questi dati perché dimostrano una cosa: media come TV e Digital sono fortemente connessi e, anzi, sono connessi più di quanto lo siano mai stati prima d’ora. Magari i consumatori si emozionano guardando un commercial in TV, si informano navigando con lo smartphone, e acquistano da desktop perché è il device più comodo da usare, oppure continuano a farlo fisicamente in negozio, come d’altronde hanno sempre fatto.
Non è esagerato affermare che è in atto la più grande rivoluzione della brand experience, in diretta conseguenza al cambiamento delle modalità d’acquisto.
E se questo è vero, se è lecito credere che stanno cambiando le abitudini dei consumatori, come ci si può illudere che non cambierà pure il modello delle agenzie di comunicazione?
Un modello che non tornerà indietro agli anni ’90 ma che non si limiterà neppure a tutta questa produzione in serie di tag e di piani editoriali tutti uguali.
Per l’ennesima volta siamo alla vigilia di un cambiamento epocale del nostro mestiere.
Se dovessi scommettere, punterei sulle agenzie che saranno capaci di sviluppare processi ibridi in cui strategia, creatività e informazioni riusciranno a integrarsi davvero, e in cui l’irrazionalità del processo emozionale si saprà combinare con la razionalità e la correttezza di una buona informazione. Speculazioni, lo ammetto, perché solo una cosa so con certezza: in un futuro molto prossimo non sarà più possibile produrre pezzi di creatività come se i creativi fossero scimmie, né tantomeno trattare come scimmie i consumatori.
E tu, cosa ne pensi?
Come sarà il nuovo modello di agenzia secondo te?
E non credi che potevo evitare di trattarti come una scimmia concludendo questo post con una ficcante e tripla call to action?
Il modello cambierà giocoforza dopo questa ubriacatura, per certi versi forzata e drogata come in tutte le bolle.
in medio stat virtus… e credo anche che solo le “vecchie” agenzie sapranno sopravvivere al cambiamento, andando ad acquisire le competenze digital su solide basi di competenza creativa e strategica.
Per osmosi, funziona un po’ come con gli idraulici: il boom nell’edilizia degli anni ’80 ha creato schiere di sedicenti professionisti che, forti di tecnologie in grado di ridurre il gap fra conoscenza e possibilità, si sono improvvisati termotecnici.
Fatto salvo che poi questi giovani primati fighissimi, quando c’è bisogno di bilanciare davvero un impianto, non sanno che pesci pigliare e ti costringono a chiamare un vecchio “trombee”.
Il digital è a mio parere un po’ la stessa cosa: lo strumento ha preso il sopravvento sulla professione e sulla professionalità (quelle sottili ma fondamentali differenze che una volta si imparavano “a bottega”) appiattendo, standardizzando e disumanizzando.
Questa smania di misurare (i “big data”), di generare lead, di profilare, ci sta distogliendo dall’obiettivo principale: emozionare.
Quando ti innamori, ti emozioni. Anche se quella persona è sbagliatissima per te.
Non lo fai certo perché un fighissimo Mac ha profilato il tuo “partner ideale” monitorando tutti i parametri di acquisto.
E sappiamo bene che Hermès, col suo bighellonare creativo e l’assenza di marketing, docet.
Ciao Paolo, il parallelo con l’idraulico mi piace molto.
Sono d’accordo.
Hai anche notato che ho parlato di bolla: in effetti mi stupisco molto quando leggo certi fatturati riportati al numero dei dipendenti.
Non è un modello sostenibile nel lungo termine ma solo con crescite a due cifre.
Già. D’altra parte sappiamo bene anche di tutti i “fake pitch” e degli award comprati. Una volta ci si rimboccava le maniche per arrivare in alto. Ecco, mi piacerebbe che tornasse ancora di moda questa opzione.
(Un trombee vi seppellirà!)
Caro Mizio, attraversando Paolo Sarpi ti leggevo come un piccolo e antico babbuino. Ho sfiorato 4 pali della luce, 5 cinesi sinceri, 4 cinesi travestiti da italiani, 3 italiani travestiti da scimmie, 6 scimmie travestite da pubblicitari (non dico dove andavano) ma è stata una bella compagnia mattutina. Bravo. E grazie. Torno allo zoo. Magari levo sta pelliccia e mi spulcio. Non mi sta bene. Con amore, Fra.
[…] non sanno cosa stanno facendo (su questo ho scritto un altro post che, se volete, potete leggere: Il Pianeta delle Scimmie). L’unica cosa in cui crederanno nel prossimo futuro è che grande è meglio di […]
Ogni tanto immagino la storia di un creativo pubblicitario che si risveglia dal coma dopo vent’anni: c’è finito nel 1998 in seguito a una settimana insonne per chiudere la mega-presentazione di una gara.
Appena lo dimettono, la prima cosa che fa è quella di tornare in agenzia.
Perché un creativo anni ’90 ha nel suo DNA un retaggio post-yuppista che lo obbliga a mettere il lavoro sempre al primo posto.
Peccato che non trovi più la sua agenzia.
O meglio: a quello stesso indirizzo trova un’agenzia di pubblicità, o qualcosa che gli somiglia, solo che ha un altro nome e non dà più lavoro a creativi umani ma a delle scimmie.
Scimmie che pigiano con efficienza sui tasti di Macintosh ultra-potenti e ultra-fighettosi.
Il creativo esce sconvolto dall’agenzia e scende in metro.
Anche qui è cambiato tutto: il vagone è pieno di scimmie autistiche la cui attenzione è catturata da scintillanti iPhone. La loro immobilità è rotta solo da leggeri movimenti del pollice opponibile che usano per scrollare lo schermo dei piccoli monoliti digitali.
Il sospetto del creativo è questo: si è risvegliato dal coma in un universo parallelo ed è vittima di un futuro distopico. Anche perché le scimmie parlano un linguaggio incomprensibile. E passi pure che non capisce il linguaggio delle scimmie della strada, ma quello che conosce meglio, cioè il linguaggio dell’agenzia di pubblicità, è completamente diverso da quello che ricorda.
“Storytelling, engagement, call to action, schedulare, PED, reach, click through, funnel, lead…” ma che cazzo di modo d’esprimersi è mai questo?
Come un novello Charlton Heston, il creativo anni ’90 esplora le altre agenzie di pubblicità che conosceva un tempo ma scopre che la situazione è uguale dappertutto.
Dove una volta c’erano idee creative ora ci sono algoritmi, dove una volta c’era la capacità di analisi per risolvere problemi complessi ora c’è la ricerca maniacale d’efficienza per rispondere velocemente a piattaforme sempre più complicate.
E dappertutto ci sono scimmie.
Scimmie super-performanti che pigiano tasti di Mac ultra-potenti e ultra-fighettosi, ma che lavorano in un isolamento autistico, indifferenti fra loro e indifferenti ai bisogni e alle emozioni delle altre scimmie che passano il tempo davanti agli iPhone.
Nemmeno il tempo di confermare a se stesso che si è risvegliato in un universo parallelo, oppure che non si è svegliato affatto ma che sta facendo un brutto incubo nel suo lungo coma, che ritrova una vecchia cartellina, di quelle che una volta contenevano le presentazioni d’agenzia.
E sulla copertina c’è un vecchio logo che riconosce, quello dell’agenzia in cui lavorava.
E allora capisce: la sua vecchia agenzia, quella che già vent’anni prima portava il nome di gente morta, è morta a sua volta. E scopre che in tutti gli anni in cui è stato in coma l’evoluzione dell’advertising non è andata esattamente nella direzione che lui immaginava.
Fine della storia.
Inizio di una breve riflessione personale.
Il Pianeta delle Scimmie è un film tratto da un libro che voleva fare satira sociale: l’intelligenza umana non è una qualità fissa e può essere atrofizzata se data per scontata. E infatti il plot narrativo racconta di esseri umani che dominano il pianeta finché la loro compiacenza e presunzione non permette alle scimmie più industriose di rovesciarlo.
La stessa cosa è capitata tra ATL e Digital nel mondo della comunicazione.
Nessuno avrà da obiettare se affermo che oggi il Digital domina il nostro mondo: basta vedere come si stanno contraendo le agenzie tradizionali e di come invece stanno esplodendo le dimensioni e i fatturati di quelle Digital (almeno finché non scoppierà la bolla). Purtroppo, e qui sta la triste conclusione di questo post, la maggior parte del lavoro Digital che realizziamo oggi è fatto da scimmie per scimmie.
Almeno a mio parere.
È un Digital troppo verticale, magari infallibile nel colpire i singoli touchpoints, ma ignaro dei benefici che buone strategie di comunicazione a lungo termine possono dare.
O anche di strategie di comunicazione tout court.
Nessuna nostalgia degli anni ’90, ma forse è arrivato il momento di togliere il primato ai primati, cioè al Digital per come lo conosciamo oggi.
Già venti anni fa ci lamentavamo dell’effetto marmellata della pubblicità, ma cosa dovremo pensare oggi delle conseguenze di tutte queste nuove discipline, come il simpatico e pervasivo performance marketing? Forse dovremmo comprendere, usando una perifrasi, che stiamo rompendo i coglioni alle persone perché le trattiamo come scimmie.
Mi solleva sapere che non sono l’unico a pensarla così: Marc Pritchard, figura più autorevole di me in quanto Chief Brand Officer di Procter&Gamble, ha appena affermato che il più grande problema del nostro settore è che stiamo irritando i consumatori, che una volta venivano a contatto con lo stesso brand solo 2 o 3 volte al mese, mentre adesso tra le 20 e le 30.
Miracoli del re-targeting!
Il vecchio modello di agenzia è morto, non c’è dubbio, ma anche quello contemporaneo, costruito su una visione verticale del Digital, mostrerà presto i suoi limiti.
Ne sono convinto.
Resta una domanda da porsi: qual è il modello di agenzia del futuro?
I primi segnali puntano su modelli che integrano la capacità di comunicazione delle vecchie agenzie con la padronanza dei nuovi tecnicismi del digital.
La fusione tra Young&Rubicam e VML va in questa direzione, ma soprattutto vanno in questa direzione i consumatori.
Secondo gli ultimi dati dell’Osservatorio Multicanalità del Politecnico di Milano, nel 2018 gli eShopper (quelli cioè che hanno comprato online almeno una volta nell’anno) sono saliti fino al 44% e sono ora rappresentati da 23 milioni di italiani, 2,5 milioni in più rispetto all’anno scorso. Ma questa percentuale si abbassa fino al 10% quando si tratta di beni di largo consumo. Ancora più importante sapere è che le persone che prendono la decisione d’acquisto direttamente in negozio, magari anche dopo essersi informate online, rappresentano pur sempre i 2/3 della popolazione italiana.
Traduzione: ancora tantissima gente.
E, dato ancora più interessante, per quanto riguarda la fruizione mediale il gap che c’è tra TV e Digital rimane sempre molto ampio: la TV ha una reach del 75,6% della popolazione italiana totale, mentre il Digital cresce, sì, ma si ferma ancora al 46,9%.
Ultimo dato da analizzare: oggi le percentuali di InfoShopper (coloro che si informano online ma poi comprano in negozio) e di ShowRoomers (quelli che fanno esattamente il contrario) si equivalgono: 52 e 48%.
Ho riportato questi dati perché dimostrano una cosa: media come TV e Digital sono fortemente connessi e, anzi, sono connessi più di quanto lo siano mai stati prima d’ora. Magari i consumatori si emozionano guardando un commercial in TV, si informano navigando con lo smartphone, e acquistano da desktop perché è il device più comodo da usare, oppure continuano a farlo fisicamente in negozio, come d’altronde hanno sempre fatto.
Non è esagerato affermare che è in atto la più grande rivoluzione della brand experience, in diretta conseguenza al cambiamento delle modalità d’acquisto.
E se questo è vero, se è lecito credere che stanno cambiando le abitudini dei consumatori, come ci si può illudere che non cambierà pure il modello delle agenzie di comunicazione?
Un modello che non tornerà indietro agli anni ’90 ma che non si limiterà neppure a tutta questa produzione in serie di tag e di piani editoriali tutti uguali.
Per l’ennesima volta siamo alla vigilia di un cambiamento epocale del nostro mestiere.
Se dovessi scommettere, punterei sulle agenzie che saranno capaci di sviluppare processi ibridi in cui strategia, creatività e informazioni riusciranno a integrarsi davvero, e in cui l’irrazionalità del processo emozionale si saprà combinare con la razionalità e la correttezza di una buona informazione. Speculazioni, lo ammetto, perché solo una cosa so con certezza: in un futuro molto prossimo non sarà più possibile produrre pezzi di creatività come se i creativi fossero scimmie, né tantomeno trattare come scimmie i consumatori.
E tu, cosa ne pensi?
Come sarà il nuovo modello di agenzia secondo te?
E non credi che potevo evitare di trattarti come una scimmia concludendo questo post con una ficcante e tripla call to action?
Comments (5)
Caro Mizio, parole sante.
Il modello cambierà giocoforza dopo questa ubriacatura, per certi versi forzata e drogata come in tutte le bolle.
in medio stat virtus… e credo anche che solo le “vecchie” agenzie sapranno sopravvivere al cambiamento, andando ad acquisire le competenze digital su solide basi di competenza creativa e strategica.
Per osmosi, funziona un po’ come con gli idraulici: il boom nell’edilizia degli anni ’80 ha creato schiere di sedicenti professionisti che, forti di tecnologie in grado di ridurre il gap fra conoscenza e possibilità, si sono improvvisati termotecnici.
Fatto salvo che poi questi giovani primati fighissimi, quando c’è bisogno di bilanciare davvero un impianto, non sanno che pesci pigliare e ti costringono a chiamare un vecchio “trombee”.
Il digital è a mio parere un po’ la stessa cosa: lo strumento ha preso il sopravvento sulla professione e sulla professionalità (quelle sottili ma fondamentali differenze che una volta si imparavano “a bottega”) appiattendo, standardizzando e disumanizzando.
Questa smania di misurare (i “big data”), di generare lead, di profilare, ci sta distogliendo dall’obiettivo principale: emozionare.
Quando ti innamori, ti emozioni. Anche se quella persona è sbagliatissima per te.
Non lo fai certo perché un fighissimo Mac ha profilato il tuo “partner ideale” monitorando tutti i parametri di acquisto.
E sappiamo bene che Hermès, col suo bighellonare creativo e l’assenza di marketing, docet.
Ciao Paolo, il parallelo con l’idraulico mi piace molto.
Sono d’accordo.
Hai anche notato che ho parlato di bolla: in effetti mi stupisco molto quando leggo certi fatturati riportati al numero dei dipendenti.
Non è un modello sostenibile nel lungo termine ma solo con crescite a due cifre.
Già. D’altra parte sappiamo bene anche di tutti i “fake pitch” e degli award comprati. Una volta ci si rimboccava le maniche per arrivare in alto. Ecco, mi piacerebbe che tornasse ancora di moda questa opzione.
(Un trombee vi seppellirà!)
Caro Mizio, attraversando Paolo Sarpi ti leggevo come un piccolo e antico babbuino. Ho sfiorato 4 pali della luce, 5 cinesi sinceri, 4 cinesi travestiti da italiani, 3 italiani travestiti da scimmie, 6 scimmie travestite da pubblicitari (non dico dove andavano) ma è stata una bella compagnia mattutina. Bravo. E grazie. Torno allo zoo. Magari levo sta pelliccia e mi spulcio. Non mi sta bene. Con amore, Fra.
[…] non sanno cosa stanno facendo (su questo ho scritto un altro post che, se volete, potete leggere: Il Pianeta delle Scimmie). L’unica cosa in cui crederanno nel prossimo futuro è che grande è meglio di […]