Ho lasciato l’ADCI più di 5 anni fa, il giorno esatto in cui uno sparuto ma rappresentativo gruppo di creativi venne a chiedermi di fare altri 3 anni come consigliere del Club. Nel triennio precedente mi ero meritato il soprannome “L’Infaticabile Consigliere Ratti” per l’impegno profuso e per le cose realizzate, prime fra tutte l’organizzazione del Grande Venerdì di Enzo. Fui lusingato della proposta, lo ammetto, anche se avevo già deciso che per me 3 anni di consiglio erano più che sufficienti e che era il momento di tornare a dedicarmi completamente alla mia agenzia. Quello che non avevo ancora deciso, invece, era di uscire dal Club ma quell’incontro, paradossalmente, mi convinse a farlo.
“Avete fatto un ottimo lavoro” affermò il gruppetto riferendosi al consiglio che aveva accompagnato i primi 3 anni della presidenza di Massimo Guastini, “ma ora c’è bisogno di riportare prestigio ai creativi!” Traduzione: riconosciamo che siete stati fantastici operai della comunicazione, ma ora è il momento che entrino in campo i fuoriclasse dell’advertising, perché solo noi possiamo realizzare quelle cose molto fighe che riporteranno il prestigio al nostro settore. Ora, anche se invecchiando ho smesso di essere particolarmente suscettibile, non è che quel ragionamento stuzzicò il mio ego. Ma non fu l’orgoglio ferito a convincermi che il Club non faceva più per me, nemmeno dopo che me lo ferirono davvero estromettendomi dalla creatura a cui avevo dato vita con passione (il Grande Venerdì di Enzo), piuttosto fu scoprire quanto le nostre convinzioni fossero divergenti.
Stiamo parlando di prestigio.
Fu quel giorno che mi resi conto che i miei interlocutori, che rappresentavano la grande maggioranza del Club, avevano sul prestigio un’idea opposta alla mia.
Perché la mia opinione è che se oggi vuoi fare un mestiere di prestigio devi fare il cuoco, non il creativo pubblicitario.
Il creativo era un mestiere prestigioso negli anni ottanta, ma se oggi vuoi il successo, vuoi andare in tv, essere intervistato sui quotidiani o magari scoparti qualche procace fan (procace, come fan, è un termine neutro, per cui l’affermazione è gender equal) è molto più intelligente fare l’Executive Chef di un ristorante stellato piuttosto che lo Chief Creative Officer di un’agenzia di pubblicità.
Sono altrettanto convinto che non puoi pretendere che il tuo mestiere torni a essere prestigioso così, per magia, solo perché lo è stato anni fa o perché ti senti molto figo. Noi creativi dovremmo conoscere le dinamiche delle mode e sapere che seguono fasi cicliche: c’è un periodo in cui una cosa è di moda e diversi periodi in cui non lo è affatto, non lo è ancora oppure non lo è più, dopodiché è possibile che torni di moda ma richiede un lavoro lungo e faticoso, senza nessuna garanzia di riuscita. E inoltre dovremmo anche sapere che questo lavoro deve essere fatto nella giusta direzione, che non è quasi mai quella indicata dalla propria vanità personale. Recuperare prestigio richiede un impegno costante e gravoso, un carico che miri a riconquistare, piano piano, il rispetto degli interlocutori, siano questi clienti, stakeholder oppure consumatori.
Il fatto di ritrovarmi davanti un gruppo di creativi che ignoravano queste nozioni di base, mi fece comprendere che il nostro modo di ragionare e i nostri principi erano agli antipodi.
In tutti questi anni sono sempre rimasto convinto della bontà della mia scelta di lasciare l’ADCI, così come non ho cambiato idea sul fatto che la strategia del Club per recuperare il prestigio non portasse da nessuna parte. In questi ultimi mesi, però, ne ho avuto la conferma definitiva. Sono stato spettatore neutrale di una campagna per l’elezione del nuovo consiglio ADCI che ha ricordato la trama del Signore delle Mosche, ho assistito allo streaming dell’Assemblea ADCI del 9 marzo in cui Andrea Concato ha lanciato l’anatema “Non sei uno di noi!” a Paolo Iabichino, reo di essersi candidato alla presidenza del prestigioso Club pur non vantando campagne di rilievo, ho visto le foto tratte dalla stessa assemblea in cui il presidente di Pubblicità e Progresso indossava la maschera di V per Vendetta per sottolineare la rivincita su una vicenda personale, ho letto infine l’articolo di Spot&Web “Diaferia chiede l’espulsione da ADCI di Guastini, Iabichino, Grazioli e Montieri” non comprendendo perché, se la questione è talmente delicata da non spiegare in cosa consisterebbe l’eventuale diffamazione dei quattro, perché la notizia viene fatta uscire su una rivista di settore invece di lasciarla al lavoro riservato e discreto dei probiviri dell’ADCI.
Insomma, se l’ADCI si poneva come obiettivo quello di recuperare il prestigio dei creativi, in quest’ultimo periodo ha ottenuto il risultato opposto: lo ha fatto precipitare.
Soprattutto ha contribuito a confermare quella convinzione che tutti quelli che non ci amano hanno da sempre nei nostri confronti: i creativi pubblicitari sono snob vanesi, la cui grandezza dell’ego e la voglia di apparire è inversamente proporzionale al loro buon senso e alla loro intelligenza.
Assodato che il prestigio non ritorna per magia, né tantomeno con i comportamenti infantili a cui abbiamo assistito negli ultimi tempi, com’è che si può perseguire? Prima di esprimere il mio punto di vista, vorrei analizzare la sintesi programmatica del nuovo corso ADCI che si riassume in due parole: eccellenza creativa.
Due parole già belle singolarmente, ancora più belle se combinate insieme, ma che a mio avviso rischiano di portare noi creativi su una strada senza uscita.
L’anno scorso, più o meno in questo periodo, ho scritto un post che si intitolava “Una volta qui era tutte campagne” e che riassume l’evoluzione delle agenzie di pubblicità negli ultimi cinquant’anni. In quel post anticipavo il fatto che i grandi network pubblicitari, dopo aver tagliato il tagliabile all’interno dei reparti creativi, si apprestavano a presentare il conto anche ai grandi direttori creativi italiani. Nemmeno a farlo apposta, dopo più di un anno, dei grandi direttori creativi di allora, almeno nei grandi network, non ne è rimasto più nemmeno uno. O quasi.
Potrei vantarmi di lungimiranza, la verità è che era un fenomeno facile da prevedere.
E così, prima abbiamo perso i creativi della nostra classe media, quelli che tramandavano il mestiere, poi abbiamo perso i più giovani, in quanto li abbiamo talmente martoriati con orari infiniti e stipendi da fame che i più talentuosi sono fuggiti in altri settori, infine abbiamo perso i cosiddetti creativi d’elite.
Detto questo, cosa ci rimane ancora da perdere?
C’è una cosa che ci resta ancora da perdere ed è la più preziosa di tutte.
È quella cosa che definisce il nostro mestiere, è il motore pulsante della nostra passione.
Quella cosa è la creatività.
È questo che è a rischio nel futuro più immediato e, a mio parere, rappresenta l’unico motivo sensato per cui bisogna cercare di riprendersi un po’ di prestigio al più presto.
La prossima battaglia, quella che non possiamo perdere, non è certo quella per distinguere una creatività ben fatta da una che non lo è, ma è piuttosto quella per giustificare l’utilità e l’esistenza della creatività stessa. Per questo credo che perseguire adesso l’eccellenza creativa rappresenti una sfida anacronistica, che non sia la cosa più urgente per cui lottare.
Se non credete a me, leggete l’intervento di Massimo Costa a margine della presentazione dei “Brandz Top 30 Most Valuable Italian brands di Kantar” di qualche settimana fa. Massimo Costa è Country Manager di WPP, la più importante organizzazione pubblicitaria in Italia e nel mondo. Il 19 marzo, oltre ad affermare che le aree trainanti del nostro comparto sono oramai quella dei media, dei servizi digitali e del business dei dati, ha detto chiaramente che per i clienti la creatività è ormai diventata una commodity.
Una commodity.
Lo ripeto perché è giusto che lo fissiate bene in mente: il manager pubblicitario più importante in Italia ha appena detto che la creatività è una commodity, cioè una cosa che non è più di fondamentale importanza.
Sia che lui lo pensi davvero, sia che riporti il pensiero dei clienti con cui è a stretto contatto ogni giorno, non c’è dubbio che da buon manager qual è si comporterà di conseguenza. Anzi, si è già orientato da tempo in questa direzione: non a caso quasi tutti i direttori creativi licenziati nell’ultimo anno lavoravano nel gruppo WPP.
Possiamo autocommiserarci lamentando il fatto che Costa sia un tiranno egocentrico e crudele che licenzia i creativi più bravi e premiati, oppure possiamo ammettere che dal suo punto d’osservazione privilegiato si è accorto di un cambiamento in atto molto prima di noi. Quello che non possiamo fare, perché a rischio c’è la stessa esistenza del nostro mestiere, è ignorare quello che sta succedendo in questo preciso istante nella testa dei clienti. Soprattutto non può ignorare questa cosa chi nel gruppo WPP ci ha lavorato per tanti anni, e addirittura fino a qualche mese fa
L’inseguimento dell’eccellenza creativa, dunque, sarà pure una cosa bella da dire e da ascoltare, ma rischia di essere una chimera ottusa e pericolosa per tutti noi.
A mio parere c’è una sola via per riportare prestigio alla nostra professione: tornare a fare campagne che funzionano. E tornare a fare una creatività fortemente applicata agli obiettivi. So che sembra un’ovvietà, ma non lo è affatto.
Quanti creativi, oggi, sono veramente focalizzati sul ritorno commerciale o d’immagine di una campagna? E, soprattutto, quanti di questi hanno l’esperienza o la capacità per farlo?
Da anni ho la ferma convinzione che l’efficacia sia l’unica via possibile per recuperare la nostra credibilità. Da anni la perseguo, nonostante sia un lavoro oscuro, umile e faticoso, sempre lontano dalle ribalte egoriferite e luccicanti. È un impegno costante che si basa su un mestiere artigianale, che una volta gli uomini di comunicazione sapevano fare, un lavoro che richiede la modestia di ascoltare e recepire con attenzione le reali esigenze dei committenti e dei consumatori. È una tipologia di professionalità che se ne frega delle mode e che in un mondo di esperti data driven si nutre degli unici dati che contano realmente, quelli delle vendite e dell’apprezzamento del pubblico.
Quando il prestigio dei creativi non era ancora in discussione, le campagne portavano risultati tangibili. Certo, era un mondo molto più semplice, composto da soli quattro canali media, ma l’obiettivo finale era assolutamente chiaro a tutti.
La decadenza del nostro mestiere è iniziata quando gli epigoni hanno ereditato la parte più superficiale dei creativi di una volta, quella che contiene solo il successo luccicante e la vanità, ma hanno tralasciato di cogliere le loro qualità più importanti: la capacità di comprendere le persone normali e soprattutto di emozionarle.
La caduta agli inferi per i creativi è stata poi velocizzata dall’avvento del digital, dalla sua natura complessa e verticale che ha parcellizzato la comunicazione rendendo sempre più deboli le idee che non riescono a basarsi su solide strategie.
Il paradosso è che il digital non è mai stato nemico dei creativi, anzi, sarebbe potuto essere una frontiera nuova ed eccitante, ma per molti ha rappresentato solo un’opportunità sprecata. Mi riferisco a chi non si è mai messo in discussione, a chi non ha rinunciato alle sue convinzioni dogmatiche, a chi ha continuato ad aver fede solo nelle sue intuizioni estemporanee. Mi riferisco a chi continua a insistere su paradigmi vecchi di oltre trent’anni. Perché parlare di eccellenza creativa in un mondo complesso come quello di oggi, con progetti di comunicazione frammentati e una trasformazione continua, è una delle cose meno visionarie che ho ascoltato ultimamente.
Se è vero che oggi la creatività è in pericolo, è altrettanto vero che a rischio sono pure le strutture che sulla creatività hanno sempre vissuto: le agenzie di creatività.
I network internazionali, arrivati a questa consapevolezza prima di tutti gli altri, hanno già messo in atto delle trasformazioni importanti. A settembre WPP ha fuso insieme Young&Rubicam e VML, dando vita a VMLY&R, poi a novembre ha fatto la stessa identica cosa con JWT e Wunderman, creando Wunderman Thompson.
Guarda caso, nella sigla il nome dell’agenzia pubblicitaria appare sempre per seconda, e magari è una combinazione ma coincide perfettamente con le affermazioni rilasciate da Massimo Costa la settimana scorsa: “… bene il media, i servizi digital, il business dei dati… la creatività è una commodity”.
Questo processo di ottimizzazione si concluderà entro la fine dell’anno quando tutte le sigle sintetizzate si ritroveranno insieme nel Campus di Concentramento dell’area Ex Richard Ginori di Milano. Dove probabilmente non si ritroveranno invece tutti i creativi delle sigle, dato che in molti finiranno nel Naviglio Grande durante il trasloco.
La strategia di business dei network pubblicitari è evidente: rinunciare ai silos verticali di comunicazione per vendere ai clienti un servizio completo, come facevano negli anni ’70. Esatto: negli anni ’70.
Perché tutto torna ciclicamente (se volete approfondire la completa evoluzione delle agenzie di pubblicità potete rileggere il post Una volta qui era tutto campagne).
Sono pronto a scommettere che nel prossimo futuro ai clienti italiani capiterà sempre più spesso di ritrovarsi intorno al tavolo un sacco di gente sconosciuta che proverà a vendergli servizi e-commerce, programmatic, SEO, native advertising, social, ricerche di mercato… anche se il meeting era stato organizzato per parlare di un semplice leaflet oppure di una brochure.
Le agenzie digital italiane stanno compiendo il percorso inverso rispetto ai network internazionali, ma l’obiettivo è praticamente lo stesso. Sono partite dalla fornitura di servizi che una volta erano considerati commodities, ma che oggi lo sono sempre meno, e si stanno attrezzando per fornire anche loro la tanto bistrattata creatività. Puntano forse a un modello che dia continuità di lavoro con il digital e marginalità con l’ATL.
La differenza sostanziale rispetto al passato è che una volta chi avesse voluto realizzare questo tipo di trasformazione avrebbe comprato agenzie creative, mentre oggi sembra sia sufficiente assumere singoli creativi. E siccome nessuno dei grandi fuoriusciti dai network si è accasato presso di loro, sembra che bastino creativi nemmeno troppo di punta. E questa evidenza potrebbe dimostrare quanto il ragionamento di Massimo Costa sia profondamente radicato nel nostro settore: creatività uguale commodity.
Ma quello che stupisce di più delle agenzie digital italiane è quanto stiano crescendo velocemente. Quasi tutte almeno.
Alkemy anni fa ha lanciato per prima un modello di crescita fatto tramite acquisizioni, un modello che in molti hanno seguito. D’altronde è logico: se compri altre società più piccole di te cresci molto più in fretta
Però ci sono anche agenzie digital indipendenti che stanno crescendo in solitaria, sia per fatturato sia per numero di dipendenti, pompando semplicemente il loro volume d’affari.
È una cosa pregevole questa, che merita rispetto, ma è da tempo che mi chiedo quali siano le motivazioni di questo fenomeno. Mi spiego: non ricordo negli ultimi trent’anni un periodo simile di crescita frenetica per quanto riguarda le agenzie di pubblicità. C’erano periodi in cui un’agenzia aveva successo ed esplodeva dal niente, ma erano casi isolati, come quello di DLV ad esempio, non capitava mai a tutto il settore contemporaneamente. Come area d’attività il digital ha ancora grandi margini di espansione, questo è certo, ma non sta crescendo alla folle velocità con cui stanno crescendo le agenzie digital italiane.
Ho il sospetto che il fenomeno possa nascondere una bolla digital pronta a scoppiare da un momento all’altro, oppure la volontà di assumere dimensioni tali da risultare appetibili per la vendita a qualche fondo.
Quelle che appaiono più defilate al momento sono le consultancies.
Quando qualche anno fa Accenture si è affacciata sul mercato della comunicazione sembrava che potesse fare piazza pulita di tutto il resto in un istante, ma a tutt’oggi la loro strategia è ancora difficile da decifrare. Anche se ultimamente stanno uscendo fuori nuovi player come Ernst Young e PWC, le velleità delle consultancies sembrano ancora spuntate. Da parte mia avrei immaginato che oggi, alla fine del primo trimestre 2019, sarebbero state molto più avanti in termini di sviluppo e che avrebbero affrontato il business con più aggressività. Resta il dubbio che la loro cultura consulenziale non sia perfettamente compatibile con quella della comunicazione, oppure che abbiano scommesso prima di tutti sulla trasformazione della creatività in commodity e quindi stiano puntando a un business meno aleatorio e più infrastrutturale. Nel frattempo dalle consultancies non è ancora uscito un progetto di comunicazione di rilievo, uno solo che possa vantare il titolo di case history.
Gli ultimi protagonisti del mercato sono le agenzie creative indipendenti, comparto di cui anche noi come Enfants Terribles facciamo parte. La cosa sorprendente di questi player è che, nonostante le dimensioni ridotte e quindi una flessibilità di manovra maggiore, sono quelli che in questo contesto storico incredibilmente dinamico risultano i più statici di tutti. La cosa si giustifica probabilmente con il fatto che sono realtà guidate perlopiù da creativi, più che da veri imprenditori, e traggono la forza dalla passione piuttosto che da una lucida visione del mercato. Sono le strutture in cui oggi il lavoro di comunicazione viene svolto al meglio, non c’è alcun dubbio. Perché sono quelle che contengono dentro il tasso maggiore di esperienza, competenza e abnegazione. Il problema è che in un mondo in cui la creatività viene confinata a essere una mera commodity, corrono il rischio di andare in profonda crisi. Queste agenzie sono le eredi di una tradizione che in Italia ha visto come antesignane boutique creative del calibro di FCA!SBP (Sabbatini, Baldoni, Panzeri), STZ (Suter, Tschirren, Zucchini), Bozell TPR (Testa, Pella, Rossetti), e che nel mondo ha parenti ancora più nobili come Wieden&Kennedy, Droga5, 72andSunny…
Ma se il passato è glorioso, il futuro presenta sfide quasi impossibili, molto più difficili di quelle che hanno davanti a sé i network, le agenzie digital e le consultancies.
Le sfide per le agenzie creative indipendenti sono rappresentate dalla necessità di restituire valore alla creatività e dal bisogno di reinventare il proprio modello di agenzia.
Negli ultimi mesi mi sono tolto la curiosità di guardare i bilanci della maggior parte dei player italiani della comunicazione. La cosa che colpisce di più è proprio la costante dei fatturati delle agenzie creative indipendenti: il 90% ha un fatturato che oscilla tra il milione e mezzo e i due milioni e mezzo di euro. Con fatturati del genere è possibile sostenere una forza lavoro che varia dalle 15 alle 25 unità (una stima approssimativa, ma attendibile, è quella che si basa su 1 addetto ogni 100K di fatturato). Diffidate di chi dichiara numeri elevati di dipendenti in confronto a fatturati che non possono sostenerli, perché i casi sono due: o mentono oppure si basano su eserciti di persone poco pagate e poco qualificate.
Tra le agenzie creative indipendenti e il resto dei player c’è uno scalino insormontabile in termini di fatturato, che una volta era presidiato dalle agenzie medie, quelle che oggi non esistono più. Quello scalino potrebbe trovarsi lì per caso, ma più probabilmente rappresenta le Colonne d’Ercole per un’impresa di comunicazione nel nostro paese. Perché oltre quel fatturato che si aggira intorno ai due milioni, due milioni e mezzo, cambiano le logiche di organizzazione aziendale.
È come se oggi nel nostro settore ci fosse una distinzione netta tra agenzie di piccolo cabotaggio e di grande cabotaggio. E se la mia riflessione è giusta, dovrebbe esserci uno spazio interessante per le piccole agenzie che riusciranno a superare le Colonne dimensionali di cui scrivevo in precedenza, perché da lì in poi ci sono solo le grandi flotte, mentre al contrario le strutture indipendenti che nei prossimi anni non riusciranno a superare quel limite rischieranno seriamente di percorrere rotte sempre più povere di clienti.
Il ragionamento nasce da conclusioni facili da comprendere.
Se i network, le agenzie digital e le consultancies stanno facendo la corsa a ingigantirsi è perché nel panorama sempre più complesso della comunicazione contemporanea i clienti si sentono più rassicurati ad affidare i loro budget a chi ha la struttura adatta per fornir loro un servizio teoricamente completo. La complessità porta sempre insicurezza, mentre l’insicurezza porta sempre la ricerca di forme di rassicurazione.
E grande è più rassicurante di piccolo.
Non dobbiamo ricercare motivazioni sofisticate o razionali nelle scelte dei nostri clienti. Inutile provare a spiegar loro che la trasformazione dei silos verticali in gigantesche organizzazioni orizzontali è una soluzione illusoria. Inutile provare a convincerli che un comunicatore che sa fa bene il suo lavoro vale più di 100 scimmie che non sanno cosa stanno facendo (su questo ho scritto un altro post che, se volete, potete leggere: Il Pianeta delle Scimmie). L’unica cosa in cui crederanno nel prossimo futuro è che grande è meglio di piccolo.
Alla fine torniamo sempre lì: è una questione di mode.
Nei prossimi anni la maggioranza dei clienti sentirà l’esigenza di affidarsi ad agenzie grandi e strutturate, dopodiché, come è sempre successo nel nostro settore, la grandezza limiterà la loro efficacia e i clienti si stuferanno della manifesta incompetenza di strutture gigantesche e impersonali. E allora andranno alla ricerca di agenzie medie, sempre strutturate ma più performanti delle grandi, che però difficilmente troveranno. Solo dopo rinunceranno al servizio completo per ripiegare sulle piccole strutture indipendenti.
Quali saranno queste piccole strutture indipendenti?
Quelle che saranno riuscite faticosamente a sopravvivere in tutti questi anni di gigantismo oppure, più probabilmente, quelle che nel frattempo si saranno create dal nulla o saranno state aperte dai creativi gettati da qui alla fine dell’anno nel Naviglio Grande.
La settimana scorsa Valerio Franco, uno dei miei soci, ha scritto un post che condivido e che porta il titolo Is “Grow Fast or Die Slow” the only way-up!”.
Penso che riassuma l’dea che un’agenzia come la mia, come d’altronde tutte le agenzie indipendenti, si trova oggi davanti a un bivio importante e definitivo, una scelta che richiede lucidità e coraggio.
Senza dubbio la strada da imboccare è quella che porta a due obiettivi ormai irrinunciabili.
Il primo è quello di provare a ingrandirsi, da soli o insieme a propri simili, per non perdere di vista le esigenze attuali e sempre più complesse dei clienti più importanti.
Il secondo è quello di provare a restituire valore e prestigio alla creatività, e a ogni altra forma di consulenza strategica che si genera ancora all’interno di un’agenzia di comunicazione.
Sono entrambi obiettivi difficili, ma il secondo porta con sé un impegno sicuramente più gravoso, come ho già scritto, che può passare solo attraverso l’efficacia.
Un impegno che solo le agenzie creative indipendenti oggi si possono prendere, perché sono le ultime rimaste a credere nella creatività.
Gli altri player della comunicazione, questo è evidente, nella creatività non ci credono più da un pezzo.
BREAKING NEWS (03.04.2019) Accenture compra Droga5.
La domanda da porsi: perché credono nella creatività o per fare una campagna d’immagine?
Dato che Droga5 è presente solo a New York e Londra io qualche dubbio ce l’avrei.
Ciao Mizio,
penso che tu abbia fatto un’analisi acuta e soprattutto molto utile della situazione. Mi spiace davvero non averti mai conosciuto di persona.
È un onore ricevere un tuo commento: sono cresciuto leggendo i Pubblicità domani dove c’erano le campagne con i tuoi credits.
La tua campagna per Simmenthal è una delle più belle di sempre.
Analisi lucida e brillante come sempre, Mizio. A me sembra che Costa da buon guardiano delle marche internazionali che il network che lui supervede gestisce, si sia ben reso conto che le campagne importanti per queste marche non nascono più in Italia, salvo poche eccezioni. Una mia riunione in una top 5 multinazionale food 2 settimane fa ha visto uffici molto vuoti e la diffusa lamentela che arriva quasi tutto da fuori. Giustamente Costa adegua le sue truppe alle richieste, che sono sempre più piccole operazioni, dove il personaggio ingombrante non serve. Così facendo a mio parere però depaupera le sue strutture della vera cultura di brand, erodendo la differenza con le consultancies. Quanto al mio intervento in adci, vorrei rassicurarti, non mi sono rincitrullito e conservo il medesimo buon senso di ieri. Ho inteso alzare il velo sul tentativo di dar vita a una controcultura creativa di suadente richiamo sociale, che cerca di spazzar via due pilastri inamovibili. Noi siamo il nostro portfolio. We are in business.
sono d’accordo sulla tua lettura: quella di WPP è una politica buona a breve termine ma rischiosa a lungo.
Per quanto riguarda il tuo intervento all’ADCI, i tuoi contenuti erano condivisibili però a mio parere il tuo claim (adesso lo chiamano insight) è stato un po’ aggressivo. Siccome ti stimo so che sicuramente l’hai fatto apposta, per risultare più incisivo. Mi chiedo solo se ce ne fosse realmente bisogno dato che era ormai scontato che Iabichino perdesse. Detto questo, è nell’insieme che questi ultimi mesi di ADCI sono stati davvero stranianti.
Gli account non finiscono quasi mai nel Naviglio.
Come ben sai sono preziosi perché gestiscono i clienti.
Finiscono nel Naviglio sono se vanno alla ricicleria e non lasciano niente agli zingari all’ingresso.
Una visione lucida in linea di massima, ma non ne comprendo appieno i sottoinsiemi.
Senza andare in particolari infinitesimi, due i puntini sospesi:
1) “… tutte le agenzie indipendenti, si trovano oggi davanti a un bivio importante e definitivo… che porta a due obiettivi ormai irrinunciabili.
Il primo è quello di provare a ingrandirsi, da soli o insieme a propri simili, per non perdere di vista le esigenze attuali e sempre più complesse dei clienti più importanti”.
—- Assimilare capacità complementari o “fondersi con propri simili”,
inteso come due realtà che fanno le stesse cose ma che diventano più grandi?
“Il secondo è quello di provare a restituire valore e prestigio alla creatività, e a ogni altra forma di consulenza strategica che si genera ancora all’interno di un’agenzia di comunicazione… Gli altri player della comunicazione, questo è evidente, nella creatività non ci credono più da un pezzo…
—- E’ chiaro che uno non esclude l’altro. Quindi di quale bivio stiamo parlando?
E qui mi ricollego al mio secondo punto. Quello più importante a mio avviso:
2) “… C’è una cosa che ci resta ancora da perdere ed è la più preziosa di tutte… la creatività… la prossima battaglia, quella che non possiamo perdere, non è certo quella per distinguere una creatività ben fatta da una che non lo è, ma è piuttosto quella per giustificare l’utilità e l’esistenza della creatività stessa. Per questo credo che perseguire adesso l’eccellenza creativa rappresenti una sfida anacronistica…”
—– Sono ultra d’accordo sulla emergenza, urgenza, di difendere la creatività. Ma dal mio punto di vista la creatività è essa stessa eccellenza. Le due cose non si possono scindere. La creatività, intesa come atto di rendere interessante e nuovo ciò che gli altri osserveranno, per provocare una emozione e generare un ricordo (nel caso di noi pubblicitari: abbianata a obiettivi ben specifici definiti da una solida strategia marketing e comunicazione) si ottiene solo “ambendo” a costruire un unicum fuori dal comune, un eccezzione; che ne diventa eccellenza.
La non eccellenza è il già visto. Che non è creatività, appunto.
E per me, questo vale per un singolo annuncio, come per un singolo post, come per un intero progetto crossmediale più complesso.
In quest’ultimo caso, la multidisciplinarietà non può essere intesa come cretività. A meno che non ci sia qualcosa di davvero creativo che la sostenga a livello espressivo e di messaggio che ne deriva. (concept, insight…)
Si è parlato di emozioni, no?
Sto parlando del potere che abbiamo noi pubblicitari di evocarle.
Non sempre la torta esce col buco, anche se spesso il buco ce lo siamo fatti (con tutto il rispetto gender equal del caso). 😉
“A mio parere c’è una sola via per riportare prestigio alla nostra professione: tornare a fare campagne che funzionano. E tornare a fare una creatività fortemente applicata agli obiettivi. So che sembra un’ovvietà, ma non lo è affatto.”
—– Infine: d’accordo anche qui sulla non ovvietà, ma perché una cosa dovrebbe escludere l’altra?
Perché la ricerca di cretività (per me sinonimo di eccellenza) dovrebbe escludere necessariemente l’applicazione agli obiettivi?
Mi stai dicendo Mizio che tutti quelli che fanno campagne con creatività spinta non raggiungono gli obiettivi di vendita, o peggio ancora di visibilità (la molto più importante brand awareness)?
Mi stai dicendo che tutte le campagne premiate, chennesò a Cannes, son stati dei flop pazzeschi in termini di ritorno aziendale?
in realtà il bivio è: non fare niente, oppure provare a ingrandirsi e battersi per la creatività (nel modo più saggio, non con vuote parole sull’eccellenza creativa).
E se non mi sono fatto capire forse mi sono espresso male.
Sull’eccellenza creativa, ognuno la definisce secondo le sue idee.
Il tuo punto di vista è “originale”, ma è il tuo.
Anch’io credo in un’idealistica accezione in cui la creatività dovrebbe essere sempre originale, ma per molti altri invece l’eccellenza creativa definisce i progetti premiati.
Che non sempre sono originali, molto spesso invece sono molto bene eseguiti.
Anche i clienti la creatività non è per forza originalità.
E non solo per loro.
Siamo in un momento in cui è di gran voga il mash up: si ricicla tutto, si mixa, eccetera.
Nel profondo la penso come te, ma penso anche che l’originalità è un bellissimo ideale ma non so quanto sia contemporaneo.
Infine non escludo il fatto che si possano fare campagne belle ed efficaci.
Ci mancherebbe.
E anzi potrei farti un sacco di esempi.
Trovo solo che in Italia la maggioranza dei creativi sia ancora focalizzata troppo sul premio.
All’estero la mentalità è già cambiata da un po’, e infatti hanno introdotto il premio Creative Effectiveness, a cui possono partecipare solo le campagne che l’anno prima hanno raccolto un Leone.
Come titolare di agenzia piccola e indipendente e di matrice creativa, mi complimento e mi dispero per quello che hai scritto. Ma se la creatività è commodity la nostra posizione è scommoda assai.
Grazie per l’analisi che leggo da esterno,finalmente l’altra versione dopo essere stato edotto sul profilo FB ‘creativi’ dalla parte avversa che leggevo chiedendomi perché tanta veemenza nei confronti del Iabichino (che nn conoscevo) e affiliati…sembravate proprio i cattivi
Il tuo articolo mi fa venire il film “the Prestige”
1.* ATTO “la promessa”
L’illusionista mi mostra qualcosa
2* ATTO “La svolta”
L’illusionista mi mostra qualcosa di ordinario (fazzoletto) e lo trasforma in straordinario (va aldilà di quello che gli altri possono afferrare)
3* ATTO “Il prestigio”
Per far acomparire qualcosa bisogna anche farla riapparire.
Spesso vogliamo conoscere il segreto che sta dietro un enigma, una magia, etc
ma quello che conta è il trucco che c’è dietro. Il segreto non fa colpo su nessuno!
La creatività dovrebbe essere questa, dovrebbe strabiliare andando oltre quello “che c’è già” (ordinario) e invece è diventata la ricerca continua di quel segreto che altro non è che, abnegazione di:
– Titoli (Chef e tutto quello che si affianca alla parola)
– Premi
– Etc…
[…] solo con la feature del prodotto. È brutta? Sì. Vende? Sì. Zitti tutti allora. Leggetevi questo post di Mizio Ratti soprattutto quando dice che dobbiamo accettare che la pubblicità non è proprio ben accetta dalla […]
[…] solo con la feature del prodotto. È brutta? Sì. Vende? Sì. Zitti tutti allora. Leggetevi questo post di Mizio Ratti soprattutto quando dice che dobbiamo accettare che la pubblicità non è proprio ben accetta dalla […]
Ho lasciato l’ADCI più di 5 anni fa, il giorno esatto in cui uno sparuto ma rappresentativo gruppo di creativi venne a chiedermi di fare altri 3 anni come consigliere del Club. Nel triennio precedente mi ero meritato il soprannome “L’Infaticabile Consigliere Ratti” per l’impegno profuso e per le cose realizzate, prime fra tutte l’organizzazione del Grande Venerdì di Enzo. Fui lusingato della proposta, lo ammetto, anche se avevo già deciso che per me 3 anni di consiglio erano più che sufficienti e che era il momento di tornare a dedicarmi completamente alla mia agenzia. Quello che non avevo ancora deciso, invece, era di uscire dal Club ma quell’incontro, paradossalmente, mi convinse a farlo.
“Avete fatto un ottimo lavoro” affermò il gruppetto riferendosi al consiglio che aveva accompagnato i primi 3 anni della presidenza di Massimo Guastini, “ma ora c’è bisogno di riportare prestigio ai creativi!” Traduzione: riconosciamo che siete stati fantastici operai della comunicazione, ma ora è il momento che entrino in campo i fuoriclasse dell’advertising, perché solo noi possiamo realizzare quelle cose molto fighe che riporteranno il prestigio al nostro settore. Ora, anche se invecchiando ho smesso di essere particolarmente suscettibile, non è che quel ragionamento stuzzicò il mio ego. Ma non fu l’orgoglio ferito a convincermi che il Club non faceva più per me, nemmeno dopo che me lo ferirono davvero estromettendomi dalla creatura a cui avevo dato vita con passione (il Grande Venerdì di Enzo), piuttosto fu scoprire quanto le nostre convinzioni fossero divergenti.
Stiamo parlando di prestigio.
Fu quel giorno che mi resi conto che i miei interlocutori, che rappresentavano la grande maggioranza del Club, avevano sul prestigio un’idea opposta alla mia.
Perché la mia opinione è che se oggi vuoi fare un mestiere di prestigio devi fare il cuoco, non il creativo pubblicitario.
Il creativo era un mestiere prestigioso negli anni ottanta, ma se oggi vuoi il successo, vuoi andare in tv, essere intervistato sui quotidiani o magari scoparti qualche procace fan (procace, come fan, è un termine neutro, per cui l’affermazione è gender equal) è molto più intelligente fare l’Executive Chef di un ristorante stellato piuttosto che lo Chief Creative Officer di un’agenzia di pubblicità.
Sono altrettanto convinto che non puoi pretendere che il tuo mestiere torni a essere prestigioso così, per magia, solo perché lo è stato anni fa o perché ti senti molto figo. Noi creativi dovremmo conoscere le dinamiche delle mode e sapere che seguono fasi cicliche: c’è un periodo in cui una cosa è di moda e diversi periodi in cui non lo è affatto, non lo è ancora oppure non lo è più, dopodiché è possibile che torni di moda ma richiede un lavoro lungo e faticoso, senza nessuna garanzia di riuscita. E inoltre dovremmo anche sapere che questo lavoro deve essere fatto nella giusta direzione, che non è quasi mai quella indicata dalla propria vanità personale. Recuperare prestigio richiede un impegno costante e gravoso, un carico che miri a riconquistare, piano piano, il rispetto degli interlocutori, siano questi clienti, stakeholder oppure consumatori.
Il fatto di ritrovarmi davanti un gruppo di creativi che ignoravano queste nozioni di base, mi fece comprendere che il nostro modo di ragionare e i nostri principi erano agli antipodi.
In tutti questi anni sono sempre rimasto convinto della bontà della mia scelta di lasciare l’ADCI, così come non ho cambiato idea sul fatto che la strategia del Club per recuperare il prestigio non portasse da nessuna parte. In questi ultimi mesi, però, ne ho avuto la conferma definitiva. Sono stato spettatore neutrale di una campagna per l’elezione del nuovo consiglio ADCI che ha ricordato la trama del Signore delle Mosche, ho assistito allo streaming dell’Assemblea ADCI del 9 marzo in cui Andrea Concato ha lanciato l’anatema “Non sei uno di noi!” a Paolo Iabichino, reo di essersi candidato alla presidenza del prestigioso Club pur non vantando campagne di rilievo, ho visto le foto tratte dalla stessa assemblea in cui il presidente di Pubblicità e Progresso indossava la maschera di V per Vendetta per sottolineare la rivincita su una vicenda personale, ho letto infine l’articolo di Spot&Web “Diaferia chiede l’espulsione da ADCI di Guastini, Iabichino, Grazioli e Montieri” non comprendendo perché, se la questione è talmente delicata da non spiegare in cosa consisterebbe l’eventuale diffamazione dei quattro, perché la notizia viene fatta uscire su una rivista di settore invece di lasciarla al lavoro riservato e discreto dei probiviri dell’ADCI.
Insomma, se l’ADCI si poneva come obiettivo quello di recuperare il prestigio dei creativi, in quest’ultimo periodo ha ottenuto il risultato opposto: lo ha fatto precipitare.
Soprattutto ha contribuito a confermare quella convinzione che tutti quelli che non ci amano hanno da sempre nei nostri confronti: i creativi pubblicitari sono snob vanesi, la cui grandezza dell’ego e la voglia di apparire è inversamente proporzionale al loro buon senso e alla loro intelligenza.
Assodato che il prestigio non ritorna per magia, né tantomeno con i comportamenti infantili a cui abbiamo assistito negli ultimi tempi, com’è che si può perseguire? Prima di esprimere il mio punto di vista, vorrei analizzare la sintesi programmatica del nuovo corso ADCI che si riassume in due parole: eccellenza creativa.
Due parole già belle singolarmente, ancora più belle se combinate insieme, ma che a mio avviso rischiano di portare noi creativi su una strada senza uscita.
L’anno scorso, più o meno in questo periodo, ho scritto un post che si intitolava “Una volta qui era tutte campagne” e che riassume l’evoluzione delle agenzie di pubblicità negli ultimi cinquant’anni. In quel post anticipavo il fatto che i grandi network pubblicitari, dopo aver tagliato il tagliabile all’interno dei reparti creativi, si apprestavano a presentare il conto anche ai grandi direttori creativi italiani. Nemmeno a farlo apposta, dopo più di un anno, dei grandi direttori creativi di allora, almeno nei grandi network, non ne è rimasto più nemmeno uno. O quasi.
Potrei vantarmi di lungimiranza, la verità è che era un fenomeno facile da prevedere.
E così, prima abbiamo perso i creativi della nostra classe media, quelli che tramandavano il mestiere, poi abbiamo perso i più giovani, in quanto li abbiamo talmente martoriati con orari infiniti e stipendi da fame che i più talentuosi sono fuggiti in altri settori, infine abbiamo perso i cosiddetti creativi d’elite.
Detto questo, cosa ci rimane ancora da perdere?
C’è una cosa che ci resta ancora da perdere ed è la più preziosa di tutte.
È quella cosa che definisce il nostro mestiere, è il motore pulsante della nostra passione.
Quella cosa è la creatività.
È questo che è a rischio nel futuro più immediato e, a mio parere, rappresenta l’unico motivo sensato per cui bisogna cercare di riprendersi un po’ di prestigio al più presto.
La prossima battaglia, quella che non possiamo perdere, non è certo quella per distinguere una creatività ben fatta da una che non lo è, ma è piuttosto quella per giustificare l’utilità e l’esistenza della creatività stessa. Per questo credo che perseguire adesso l’eccellenza creativa rappresenti una sfida anacronistica, che non sia la cosa più urgente per cui lottare.
Se non credete a me, leggete l’intervento di Massimo Costa a margine della presentazione dei “Brandz Top 30 Most Valuable Italian brands di Kantar” di qualche settimana fa. Massimo Costa è Country Manager di WPP, la più importante organizzazione pubblicitaria in Italia e nel mondo. Il 19 marzo, oltre ad affermare che le aree trainanti del nostro comparto sono oramai quella dei media, dei servizi digitali e del business dei dati, ha detto chiaramente che per i clienti la creatività è ormai diventata una commodity.
Una commodity.
Lo ripeto perché è giusto che lo fissiate bene in mente: il manager pubblicitario più importante in Italia ha appena detto che la creatività è una commodity, cioè una cosa che non è più di fondamentale importanza.
Sia che lui lo pensi davvero, sia che riporti il pensiero dei clienti con cui è a stretto contatto ogni giorno, non c’è dubbio che da buon manager qual è si comporterà di conseguenza. Anzi, si è già orientato da tempo in questa direzione: non a caso quasi tutti i direttori creativi licenziati nell’ultimo anno lavoravano nel gruppo WPP.
Possiamo autocommiserarci lamentando il fatto che Costa sia un tiranno egocentrico e crudele che licenzia i creativi più bravi e premiati, oppure possiamo ammettere che dal suo punto d’osservazione privilegiato si è accorto di un cambiamento in atto molto prima di noi. Quello che non possiamo fare, perché a rischio c’è la stessa esistenza del nostro mestiere, è ignorare quello che sta succedendo in questo preciso istante nella testa dei clienti. Soprattutto non può ignorare questa cosa chi nel gruppo WPP ci ha lavorato per tanti anni, e addirittura fino a qualche mese fa
L’inseguimento dell’eccellenza creativa, dunque, sarà pure una cosa bella da dire e da ascoltare, ma rischia di essere una chimera ottusa e pericolosa per tutti noi.
A mio parere c’è una sola via per riportare prestigio alla nostra professione: tornare a fare campagne che funzionano. E tornare a fare una creatività fortemente applicata agli obiettivi. So che sembra un’ovvietà, ma non lo è affatto.
Quanti creativi, oggi, sono veramente focalizzati sul ritorno commerciale o d’immagine di una campagna? E, soprattutto, quanti di questi hanno l’esperienza o la capacità per farlo?
Da anni ho la ferma convinzione che l’efficacia sia l’unica via possibile per recuperare la nostra credibilità. Da anni la perseguo, nonostante sia un lavoro oscuro, umile e faticoso, sempre lontano dalle ribalte egoriferite e luccicanti. È un impegno costante che si basa su un mestiere artigianale, che una volta gli uomini di comunicazione sapevano fare, un lavoro che richiede la modestia di ascoltare e recepire con attenzione le reali esigenze dei committenti e dei consumatori. È una tipologia di professionalità che se ne frega delle mode e che in un mondo di esperti data driven si nutre degli unici dati che contano realmente, quelli delle vendite e dell’apprezzamento del pubblico.
Quando il prestigio dei creativi non era ancora in discussione, le campagne portavano risultati tangibili. Certo, era un mondo molto più semplice, composto da soli quattro canali media, ma l’obiettivo finale era assolutamente chiaro a tutti.
La decadenza del nostro mestiere è iniziata quando gli epigoni hanno ereditato la parte più superficiale dei creativi di una volta, quella che contiene solo il successo luccicante e la vanità, ma hanno tralasciato di cogliere le loro qualità più importanti: la capacità di comprendere le persone normali e soprattutto di emozionarle.
La caduta agli inferi per i creativi è stata poi velocizzata dall’avvento del digital, dalla sua natura complessa e verticale che ha parcellizzato la comunicazione rendendo sempre più deboli le idee che non riescono a basarsi su solide strategie.
Il paradosso è che il digital non è mai stato nemico dei creativi, anzi, sarebbe potuto essere una frontiera nuova ed eccitante, ma per molti ha rappresentato solo un’opportunità sprecata. Mi riferisco a chi non si è mai messo in discussione, a chi non ha rinunciato alle sue convinzioni dogmatiche, a chi ha continuato ad aver fede solo nelle sue intuizioni estemporanee. Mi riferisco a chi continua a insistere su paradigmi vecchi di oltre trent’anni. Perché parlare di eccellenza creativa in un mondo complesso come quello di oggi, con progetti di comunicazione frammentati e una trasformazione continua, è una delle cose meno visionarie che ho ascoltato ultimamente.
Se è vero che oggi la creatività è in pericolo, è altrettanto vero che a rischio sono pure le strutture che sulla creatività hanno sempre vissuto: le agenzie di creatività.
I network internazionali, arrivati a questa consapevolezza prima di tutti gli altri, hanno già messo in atto delle trasformazioni importanti. A settembre WPP ha fuso insieme Young&Rubicam e VML, dando vita a VMLY&R, poi a novembre ha fatto la stessa identica cosa con JWT e Wunderman, creando Wunderman Thompson.
Guarda caso, nella sigla il nome dell’agenzia pubblicitaria appare sempre per seconda, e magari è una combinazione ma coincide perfettamente con le affermazioni rilasciate da Massimo Costa la settimana scorsa: “… bene il media, i servizi digital, il business dei dati… la creatività è una commodity”.
Questo processo di ottimizzazione si concluderà entro la fine dell’anno quando tutte le sigle sintetizzate si ritroveranno insieme nel Campus di Concentramento dell’area Ex Richard Ginori di Milano. Dove probabilmente non si ritroveranno invece tutti i creativi delle sigle, dato che in molti finiranno nel Naviglio Grande durante il trasloco.
La strategia di business dei network pubblicitari è evidente: rinunciare ai silos verticali di comunicazione per vendere ai clienti un servizio completo, come facevano negli anni ’70. Esatto: negli anni ’70.
Perché tutto torna ciclicamente (se volete approfondire la completa evoluzione delle agenzie di pubblicità potete rileggere il post Una volta qui era tutto campagne).
Sono pronto a scommettere che nel prossimo futuro ai clienti italiani capiterà sempre più spesso di ritrovarsi intorno al tavolo un sacco di gente sconosciuta che proverà a vendergli servizi e-commerce, programmatic, SEO, native advertising, social, ricerche di mercato… anche se il meeting era stato organizzato per parlare di un semplice leaflet oppure di una brochure.
Le agenzie digital italiane stanno compiendo il percorso inverso rispetto ai network internazionali, ma l’obiettivo è praticamente lo stesso. Sono partite dalla fornitura di servizi che una volta erano considerati commodities, ma che oggi lo sono sempre meno, e si stanno attrezzando per fornire anche loro la tanto bistrattata creatività. Puntano forse a un modello che dia continuità di lavoro con il digital e marginalità con l’ATL.
La differenza sostanziale rispetto al passato è che una volta chi avesse voluto realizzare questo tipo di trasformazione avrebbe comprato agenzie creative, mentre oggi sembra sia sufficiente assumere singoli creativi. E siccome nessuno dei grandi fuoriusciti dai network si è accasato presso di loro, sembra che bastino creativi nemmeno troppo di punta. E questa evidenza potrebbe dimostrare quanto il ragionamento di Massimo Costa sia profondamente radicato nel nostro settore: creatività uguale commodity.
Ma quello che stupisce di più delle agenzie digital italiane è quanto stiano crescendo velocemente. Quasi tutte almeno.
Alkemy anni fa ha lanciato per prima un modello di crescita fatto tramite acquisizioni, un modello che in molti hanno seguito. D’altronde è logico: se compri altre società più piccole di te cresci molto più in fretta
Però ci sono anche agenzie digital indipendenti che stanno crescendo in solitaria, sia per fatturato sia per numero di dipendenti, pompando semplicemente il loro volume d’affari.
È una cosa pregevole questa, che merita rispetto, ma è da tempo che mi chiedo quali siano le motivazioni di questo fenomeno. Mi spiego: non ricordo negli ultimi trent’anni un periodo simile di crescita frenetica per quanto riguarda le agenzie di pubblicità. C’erano periodi in cui un’agenzia aveva successo ed esplodeva dal niente, ma erano casi isolati, come quello di DLV ad esempio, non capitava mai a tutto il settore contemporaneamente. Come area d’attività il digital ha ancora grandi margini di espansione, questo è certo, ma non sta crescendo alla folle velocità con cui stanno crescendo le agenzie digital italiane.
Ho il sospetto che il fenomeno possa nascondere una bolla digital pronta a scoppiare da un momento all’altro, oppure la volontà di assumere dimensioni tali da risultare appetibili per la vendita a qualche fondo.
Quelle che appaiono più defilate al momento sono le consultancies.
Quando qualche anno fa Accenture si è affacciata sul mercato della comunicazione sembrava che potesse fare piazza pulita di tutto il resto in un istante, ma a tutt’oggi la loro strategia è ancora difficile da decifrare. Anche se ultimamente stanno uscendo fuori nuovi player come Ernst Young e PWC, le velleità delle consultancies sembrano ancora spuntate. Da parte mia avrei immaginato che oggi, alla fine del primo trimestre 2019, sarebbero state molto più avanti in termini di sviluppo e che avrebbero affrontato il business con più aggressività. Resta il dubbio che la loro cultura consulenziale non sia perfettamente compatibile con quella della comunicazione, oppure che abbiano scommesso prima di tutti sulla trasformazione della creatività in commodity e quindi stiano puntando a un business meno aleatorio e più infrastrutturale. Nel frattempo dalle consultancies non è ancora uscito un progetto di comunicazione di rilievo, uno solo che possa vantare il titolo di case history.
Gli ultimi protagonisti del mercato sono le agenzie creative indipendenti, comparto di cui anche noi come Enfants Terribles facciamo parte. La cosa sorprendente di questi player è che, nonostante le dimensioni ridotte e quindi una flessibilità di manovra maggiore, sono quelli che in questo contesto storico incredibilmente dinamico risultano i più statici di tutti. La cosa si giustifica probabilmente con il fatto che sono realtà guidate perlopiù da creativi, più che da veri imprenditori, e traggono la forza dalla passione piuttosto che da una lucida visione del mercato. Sono le strutture in cui oggi il lavoro di comunicazione viene svolto al meglio, non c’è alcun dubbio. Perché sono quelle che contengono dentro il tasso maggiore di esperienza, competenza e abnegazione. Il problema è che in un mondo in cui la creatività viene confinata a essere una mera commodity, corrono il rischio di andare in profonda crisi. Queste agenzie sono le eredi di una tradizione che in Italia ha visto come antesignane boutique creative del calibro di FCA!SBP (Sabbatini, Baldoni, Panzeri), STZ (Suter, Tschirren, Zucchini), Bozell TPR (Testa, Pella, Rossetti), e che nel mondo ha parenti ancora più nobili come Wieden&Kennedy, Droga5, 72andSunny…
Ma se il passato è glorioso, il futuro presenta sfide quasi impossibili, molto più difficili di quelle che hanno davanti a sé i network, le agenzie digital e le consultancies.
Le sfide per le agenzie creative indipendenti sono rappresentate dalla necessità di restituire valore alla creatività e dal bisogno di reinventare il proprio modello di agenzia.
Negli ultimi mesi mi sono tolto la curiosità di guardare i bilanci della maggior parte dei player italiani della comunicazione. La cosa che colpisce di più è proprio la costante dei fatturati delle agenzie creative indipendenti: il 90% ha un fatturato che oscilla tra il milione e mezzo e i due milioni e mezzo di euro. Con fatturati del genere è possibile sostenere una forza lavoro che varia dalle 15 alle 25 unità (una stima approssimativa, ma attendibile, è quella che si basa su 1 addetto ogni 100K di fatturato). Diffidate di chi dichiara numeri elevati di dipendenti in confronto a fatturati che non possono sostenerli, perché i casi sono due: o mentono oppure si basano su eserciti di persone poco pagate e poco qualificate.
Tra le agenzie creative indipendenti e il resto dei player c’è uno scalino insormontabile in termini di fatturato, che una volta era presidiato dalle agenzie medie, quelle che oggi non esistono più. Quello scalino potrebbe trovarsi lì per caso, ma più probabilmente rappresenta le Colonne d’Ercole per un’impresa di comunicazione nel nostro paese. Perché oltre quel fatturato che si aggira intorno ai due milioni, due milioni e mezzo, cambiano le logiche di organizzazione aziendale.
È come se oggi nel nostro settore ci fosse una distinzione netta tra agenzie di piccolo cabotaggio e di grande cabotaggio. E se la mia riflessione è giusta, dovrebbe esserci uno spazio interessante per le piccole agenzie che riusciranno a superare le Colonne dimensionali di cui scrivevo in precedenza, perché da lì in poi ci sono solo le grandi flotte, mentre al contrario le strutture indipendenti che nei prossimi anni non riusciranno a superare quel limite rischieranno seriamente di percorrere rotte sempre più povere di clienti.
Il ragionamento nasce da conclusioni facili da comprendere.
Se i network, le agenzie digital e le consultancies stanno facendo la corsa a ingigantirsi è perché nel panorama sempre più complesso della comunicazione contemporanea i clienti si sentono più rassicurati ad affidare i loro budget a chi ha la struttura adatta per fornir loro un servizio teoricamente completo. La complessità porta sempre insicurezza, mentre l’insicurezza porta sempre la ricerca di forme di rassicurazione.
E grande è più rassicurante di piccolo.
Non dobbiamo ricercare motivazioni sofisticate o razionali nelle scelte dei nostri clienti. Inutile provare a spiegar loro che la trasformazione dei silos verticali in gigantesche organizzazioni orizzontali è una soluzione illusoria. Inutile provare a convincerli che un comunicatore che sa fa bene il suo lavoro vale più di 100 scimmie che non sanno cosa stanno facendo (su questo ho scritto un altro post che, se volete, potete leggere: Il Pianeta delle Scimmie). L’unica cosa in cui crederanno nel prossimo futuro è che grande è meglio di piccolo.
Alla fine torniamo sempre lì: è una questione di mode.
Nei prossimi anni la maggioranza dei clienti sentirà l’esigenza di affidarsi ad agenzie grandi e strutturate, dopodiché, come è sempre successo nel nostro settore, la grandezza limiterà la loro efficacia e i clienti si stuferanno della manifesta incompetenza di strutture gigantesche e impersonali. E allora andranno alla ricerca di agenzie medie, sempre strutturate ma più performanti delle grandi, che però difficilmente troveranno. Solo dopo rinunceranno al servizio completo per ripiegare sulle piccole strutture indipendenti.
Quali saranno queste piccole strutture indipendenti?
Quelle che saranno riuscite faticosamente a sopravvivere in tutti questi anni di gigantismo oppure, più probabilmente, quelle che nel frattempo si saranno create dal nulla o saranno state aperte dai creativi gettati da qui alla fine dell’anno nel Naviglio Grande.
La settimana scorsa Valerio Franco, uno dei miei soci, ha scritto un post che condivido e che porta il titolo Is “Grow Fast or Die Slow” the only way-up!”.
Penso che riassuma l’dea che un’agenzia come la mia, come d’altronde tutte le agenzie indipendenti, si trova oggi davanti a un bivio importante e definitivo, una scelta che richiede lucidità e coraggio.
Senza dubbio la strada da imboccare è quella che porta a due obiettivi ormai irrinunciabili.
Il primo è quello di provare a ingrandirsi, da soli o insieme a propri simili, per non perdere di vista le esigenze attuali e sempre più complesse dei clienti più importanti.
Il secondo è quello di provare a restituire valore e prestigio alla creatività, e a ogni altra forma di consulenza strategica che si genera ancora all’interno di un’agenzia di comunicazione.
Sono entrambi obiettivi difficili, ma il secondo porta con sé un impegno sicuramente più gravoso, come ho già scritto, che può passare solo attraverso l’efficacia.
Un impegno che solo le agenzie creative indipendenti oggi si possono prendere, perché sono le ultime rimaste a credere nella creatività.
Gli altri player della comunicazione, questo è evidente, nella creatività non ci credono più da un pezzo.
BREAKING NEWS (03.04.2019)
Accenture compra Droga5.
La domanda da porsi: perché credono nella creatività o per fare una campagna d’immagine?
Dato che Droga5 è presente solo a New York e Londra io qualche dubbio ce l’avrei.
Comments (25)
Articolo acuto, come sempre i tuoi scritti e opinioni.
Grazie Elena, lusingato 🙂
Illuminante. Grazie per il post.
Grazie a te per averlo letto.
Non ho capito se i tuoi cari amici account finiranno anche loro nel naviglio. Comunque molto interessante come analisi. A presto MizioDarwin
Ciao Mizio,
penso che tu abbia fatto un’analisi acuta e soprattutto molto utile della situazione. Mi spiace davvero non averti mai conosciuto di persona.
È un onore ricevere un tuo commento: sono cresciuto leggendo i Pubblicità domani dove c’erano le campagne con i tuoi credits.
La tua campagna per Simmenthal è una delle più belle di sempre.
Analisi lucida e brillante come sempre, Mizio. A me sembra che Costa da buon guardiano delle marche internazionali che il network che lui supervede gestisce, si sia ben reso conto che le campagne importanti per queste marche non nascono più in Italia, salvo poche eccezioni. Una mia riunione in una top 5 multinazionale food 2 settimane fa ha visto uffici molto vuoti e la diffusa lamentela che arriva quasi tutto da fuori. Giustamente Costa adegua le sue truppe alle richieste, che sono sempre più piccole operazioni, dove il personaggio ingombrante non serve. Così facendo a mio parere però depaupera le sue strutture della vera cultura di brand, erodendo la differenza con le consultancies. Quanto al mio intervento in adci, vorrei rassicurarti, non mi sono rincitrullito e conservo il medesimo buon senso di ieri. Ho inteso alzare il velo sul tentativo di dar vita a una controcultura creativa di suadente richiamo sociale, che cerca di spazzar via due pilastri inamovibili. Noi siamo il nostro portfolio. We are in business.
Ciao Andrea,
sono d’accordo sulla tua lettura: quella di WPP è una politica buona a breve termine ma rischiosa a lungo.
Per quanto riguarda il tuo intervento all’ADCI, i tuoi contenuti erano condivisibili però a mio parere il tuo claim (adesso lo chiamano insight) è stato un po’ aggressivo. Siccome ti stimo so che sicuramente l’hai fatto apposta, per risultare più incisivo. Mi chiedo solo se ce ne fosse realmente bisogno dato che era ormai scontato che Iabichino perdesse. Detto questo, è nell’insieme che questi ultimi mesi di ADCI sono stati davvero stranianti.
Non ho capito se anche gli account finiscono nel Naviglio. Comunque interessante, MizioDarwin.
A presto, Tom
Gli account non finiscono quasi mai nel Naviglio.
Come ben sai sono preziosi perché gestiscono i clienti.
Finiscono nel Naviglio sono se vanno alla ricicleria e non lasciano niente agli zingari all’ingresso.
Una visione lucida in linea di massima, ma non ne comprendo appieno i sottoinsiemi.
Senza andare in particolari infinitesimi, due i puntini sospesi:
1) “… tutte le agenzie indipendenti, si trovano oggi davanti a un bivio importante e definitivo… che porta a due obiettivi ormai irrinunciabili.
Il primo è quello di provare a ingrandirsi, da soli o insieme a propri simili, per non perdere di vista le esigenze attuali e sempre più complesse dei clienti più importanti”.
—- Assimilare capacità complementari o “fondersi con propri simili”,
inteso come due realtà che fanno le stesse cose ma che diventano più grandi?
“Il secondo è quello di provare a restituire valore e prestigio alla creatività, e a ogni altra forma di consulenza strategica che si genera ancora all’interno di un’agenzia di comunicazione… Gli altri player della comunicazione, questo è evidente, nella creatività non ci credono più da un pezzo…
—- E’ chiaro che uno non esclude l’altro. Quindi di quale bivio stiamo parlando?
E qui mi ricollego al mio secondo punto. Quello più importante a mio avviso:
2) “… C’è una cosa che ci resta ancora da perdere ed è la più preziosa di tutte… la creatività… la prossima battaglia, quella che non possiamo perdere, non è certo quella per distinguere una creatività ben fatta da una che non lo è, ma è piuttosto quella per giustificare l’utilità e l’esistenza della creatività stessa. Per questo credo che perseguire adesso l’eccellenza creativa rappresenti una sfida anacronistica…”
—– Sono ultra d’accordo sulla emergenza, urgenza, di difendere la creatività. Ma dal mio punto di vista la creatività è essa stessa eccellenza. Le due cose non si possono scindere. La creatività, intesa come atto di rendere interessante e nuovo ciò che gli altri osserveranno, per provocare una emozione e generare un ricordo (nel caso di noi pubblicitari: abbianata a obiettivi ben specifici definiti da una solida strategia marketing e comunicazione) si ottiene solo “ambendo” a costruire un unicum fuori dal comune, un eccezzione; che ne diventa eccellenza.
La non eccellenza è il già visto. Che non è creatività, appunto.
E per me, questo vale per un singolo annuncio, come per un singolo post, come per un intero progetto crossmediale più complesso.
In quest’ultimo caso, la multidisciplinarietà non può essere intesa come cretività. A meno che non ci sia qualcosa di davvero creativo che la sostenga a livello espressivo e di messaggio che ne deriva. (concept, insight…)
Si è parlato di emozioni, no?
Sto parlando del potere che abbiamo noi pubblicitari di evocarle.
Non sempre la torta esce col buco, anche se spesso il buco ce lo siamo fatti (con tutto il rispetto gender equal del caso). 😉
“A mio parere c’è una sola via per riportare prestigio alla nostra professione: tornare a fare campagne che funzionano. E tornare a fare una creatività fortemente applicata agli obiettivi. So che sembra un’ovvietà, ma non lo è affatto.”
—– Infine: d’accordo anche qui sulla non ovvietà, ma perché una cosa dovrebbe escludere l’altra?
Perché la ricerca di cretività (per me sinonimo di eccellenza) dovrebbe escludere necessariemente l’applicazione agli obiettivi?
Mi stai dicendo Mizio che tutti quelli che fanno campagne con creatività spinta non raggiungono gli obiettivi di vendita, o peggio ancora di visibilità (la molto più importante brand awareness)?
Mi stai dicendo che tutte le campagne premiate, chennesò a Cannes, son stati dei flop pazzeschi in termini di ritorno aziendale?
Ciao Luca,
in realtà il bivio è: non fare niente, oppure provare a ingrandirsi e battersi per la creatività (nel modo più saggio, non con vuote parole sull’eccellenza creativa).
E se non mi sono fatto capire forse mi sono espresso male.
Sull’eccellenza creativa, ognuno la definisce secondo le sue idee.
Il tuo punto di vista è “originale”, ma è il tuo.
Anch’io credo in un’idealistica accezione in cui la creatività dovrebbe essere sempre originale, ma per molti altri invece l’eccellenza creativa definisce i progetti premiati.
Che non sempre sono originali, molto spesso invece sono molto bene eseguiti.
Anche i clienti la creatività non è per forza originalità.
E non solo per loro.
Siamo in un momento in cui è di gran voga il mash up: si ricicla tutto, si mixa, eccetera.
Nel profondo la penso come te, ma penso anche che l’originalità è un bellissimo ideale ma non so quanto sia contemporaneo.
Infine non escludo il fatto che si possano fare campagne belle ed efficaci.
Ci mancherebbe.
E anzi potrei farti un sacco di esempi.
Trovo solo che in Italia la maggioranza dei creativi sia ancora focalizzata troppo sul premio.
All’estero la mentalità è già cambiata da un po’, e infatti hanno introdotto il premio Creative Effectiveness, a cui possono partecipare solo le campagne che l’anno prima hanno raccolto un Leone.
Ne vale sempre la penna. La tua.
bravo
Fra
Rispondo con un altro gioco anni ’80.
È un bel commento, come d’0altronde sei tu 🙂
Come titolare di agenzia piccola e indipendente e di matrice creativa, mi complimento e mi dispero per quello che hai scritto. Ma se la creatività è commodity la nostra posizione è scommoda assai.
Già, teniamo duro Marina 😉
Grazie per l’analisi che leggo da esterno,finalmente l’altra versione dopo essere stato edotto sul profilo FB ‘creativi’ dalla parte avversa che leggevo chiedendomi perché tanta veemenza nei confronti del Iabichino (che nn conoscevo) e affiliati…sembravate proprio i cattivi
Io a dire il vero sono neutrale, ho riportato solo i fatti come si sono svolti.
Il tuo articolo mi fa venire il film “the Prestige”
1.* ATTO “la promessa”
L’illusionista mi mostra qualcosa
2* ATTO “La svolta”
L’illusionista mi mostra qualcosa di ordinario (fazzoletto) e lo trasforma in straordinario (va aldilà di quello che gli altri possono afferrare)
3* ATTO “Il prestigio”
Per far acomparire qualcosa bisogna anche farla riapparire.
Spesso vogliamo conoscere il segreto che sta dietro un enigma, una magia, etc
ma quello che conta è il trucco che c’è dietro. Il segreto non fa colpo su nessuno!
La creatività dovrebbe essere questa, dovrebbe strabiliare andando oltre quello “che c’è già” (ordinario) e invece è diventata la ricerca continua di quel segreto che altro non è che, abnegazione di:
– Titoli (Chef e tutto quello che si affianca alla parola)
– Premi
– Etc…
Una metafora molto interessante.
Ho letto e riletto con ‘entusiasmo’.
L’analisi che mancava, definitiva o quasi.
Ma perchè io e te ancora non ci conosciamo?
🙂
[…] solo con la feature del prodotto. È brutta? Sì. Vende? Sì. Zitti tutti allora. Leggetevi questo post di Mizio Ratti soprattutto quando dice che dobbiamo accettare che la pubblicità non è proprio ben accetta dalla […]
[…] solo con la feature del prodotto. È brutta? Sì. Vende? Sì. Zitti tutti allora. Leggetevi questo post di Mizio Ratti soprattutto quando dice che dobbiamo accettare che la pubblicità non è proprio ben accetta dalla […]