Sono bastati pochi mesi da beta tester di Bluesky, la nuova piattaforma social di microblogging dove si stanno rifugiando sempre più profughi di Twitter, per avere questa banale epifania: quanto erano interessanti i Social Media all’inizio, quando cercavi persone con cui discutere anziché haters con cui litigare.
All’inizio ti iscrivevi per conversare con gli amici e ritrovare vecchie conoscenze, condividevi con loro pensieri, stati d’animo e fotografie. Poi, giustamente, Meta ha pensato che doveva guadagnarci, ma ha scelto un modello di revenue vecchio come quello della pubblicità tabellare. E le cose sono cambiate
Ricordo bene gli albori del web 2.0 perché per un creativo pubblicitario era un periodo eccitante: per la prima volta potevi pensare a progetti realmente integrati. Ne ricordo alcuni che partivano dalla TV, passavano da Facebook, attraversavano Twitter, facevano una puntata su YouTube e infine atterravano su un mini-sito. Le possibilità erano infinite, il senso di libertà grandioso e l’originalità serviva per catturare l’interesse del navigatore e accompagnarlo in un’esperienza multipiattaforma.
Oggi è impossibile fare progetti del genere, perché il modello tabellare innesca tra le piatttaforme una guerra di tutti contro tutti.
Ma qual è il motivo per cui Meta e gli altri Social Media hanno scelto un modello del genere? Semplice: perché era il più adatto per abbassare la soglia minima d’investimento e catturare anche i piccoli inserzionisti che per la prima volta hanno potuto promuoversi con poche decine di euro ma, soprattutto, perché il modello tabellare è rassicurante per i grandi brand dato che è quello che usano da sempre, e cioè pago e in cambio ottengo visibilità. E bada bene: visibilità, non risultati.
La pubblicità tabellare funziona seguendo una logica do ut des. La stessa che domina da sempre l’adv classico: pago questo spot quanto viene visto, pago questo annuncio quanto viene letto. E come misuri questa equazione? Ovvio, dando per buona l’audience del programma o della testata in cui il contenuto pubblicitario va a posizionarsi.
È evidente che in un modello di pubblicità del genere l’audience ha un ruolo fondamentale, molto più delle interazioni e molto più del gradimento. Di conseguenza i Social Media hanno iniziato a lottare per un aspetto quantitativo come l’audience piuttosto che per uno qualitativo, perché lo scopo è che gli iscritti passino sempre più tempo sulla piattaforma. Questo tema è diventato urgente da quando le piattaforme social si sono moltiplicate e i navigatori hanno preso l’abitudine di passare dall’una all’altra come negli anni ’90 si scanalava con il telecomando .
Facebook è nato nel 2004, YouTube nel 2005, Twitter nel 2007 e Instagram è arrivato solo nel 2010. Ma oggi, oltre a questi Social Media, quanti altri ne può frequentare un essere umano in un giorno?
Cito solo i principali concorrenti: TikTok, LinkedIN, Twitch, Pinterest, Discord… non c’è tempo per tutti, è ovvio, e così la lotta per l’audience è diventata una guerra senza quartiere fatta a colpi di algoritmi.
Perché gli algoritmi sono le armi di questa guerra, i criteri secondo cui una volta sui Social Media vedevi i contenuti pubblicati dai tuoi amici e oggi vedi una sfilza di contenuti sponsorizzati che non hanno senso. Perché con il tempo i Social Media hanno provato a profilarci, ma poi Apple ha introdotto l’App Transparency Framework, una funzionalità di iOS che all’avvio di un’app ci chiede il consenso per il tracciamento sui siti web. Un passo in avanti per la nostra Privacy che ha reso più difficile spiarci e ha fatto crollare l’efficacia delle campagne sui Social Media.
Con la diminuzione dell’efficacia della profilazione, e quindi con l’impossibilità di agire chirurgicamente, le statistiche sull’audience sono diventate ancora più importanti e il tentativo di allungare il tempo medio di ogni singolo utente sulle piattaforme è diventato fondamentale rappresentando uno degli obiettivi principali degli algoritmi.
E uno dei modi per cui è più facile trattenerti è compiacerti.
Ecco perché continui a vedere contenuti che sembri gradire e utenti a cui hai dato like. Questa cosa che a prima vista sembrerebbe giusta, in realtà presenta un limite: se sei un complottista che crede che il Covid sia stato realizzato in laboratori cinesi continuerai a vedere post di gente che dice che nel vaccino ci hanno messo dentro i microchip, mentre se credi agli alieni leggerai solo post di scie chimiche e pubblicità di Raeliani.
Risultato? Finisci dentro una bolla in cui le tue convinzioni si rafforzano e addirittura si radicalizzano, tanto che quando sulla tua bacheca appare il commento di un poveraccio che non la pensa come te ed esprime un dissenso, lo offendi. Lo stesso succede quando ti appare nel Feed un Influencer che non ti sta simpatico. Ecco la genesi degli haters.
Questa bolla autoindotta di convinzioni radicate e di circoli ristetti (l’intelligenza è soprattutto apertura mentale) è amplificata ad arte dagli algoritmi che, oltre a farti vedere solo quello che ti lusinga, ti trattengono sulla piattaforma.
Come in una specie di Truman Show, i Social Media hanno iniziato a penalizzare i link esterni. Prova a pubblicare un post su Facebook con un link a YouTube oppure al tuo blog. Vedrai che risultati penosi, sia come commenti sia come visualizzazioni.
Povertà dei contenuti e ricchezza di haters hanno creato ulteriori conseguenze.
Le persone attive, cioè quelle che pubblicano contenuti originali così come quelle che interagiscono, sono diminuite. Sono aumentati i lurker: gente che scrolla lo smartphone per ore senza interagire, al limite incazzandosi quando un contenuto non risponde ai loro gusti.
La crescita di TikTok non è un caso. A livello mondiale è la sesta piattaforma per numero di users ma è diventata la prima come tempo medio di utilizzo: 31 ore e 30 minuti al mese per utilizzatore, quasi il doppio di Facebook (*dati Digital Report 2023 di We Are Social release di Aprile). TikTok è un rule breaker in quanto se ne frega delle interazioni (sì, ha cuori e commenti, ok, ma il benchmark sono le visualizzazioni) e quindi si sta allontanando sempre di più da quelli che erano i Social Media di un tempo e si sta avvicinando sempre più all’abitudine di fruizione della vecchia TV.
In questo scenario diminuiscono i contenuti di qualità, perché amenoché tu non sia un Creator o un Influencer che fa numeri talmente alti da riuscire a monetizzare, è dura impegnarsi nella creazione di contenuti che rischiano di passare inosservati. Ma se la qualità dei contenuti è diminuita, si è alzata tantissimo la qualità dell’estetica dei post e dei video.
Quello che si è creato, insomma, è il microclima ideale per il grande inserzionista pubblicitario: modello tabellare, numero di canali limitato (Creator), alta qualità estetica irraggiungibile dall’utente medio perché richiede investimenti importanti, Influencer utilizzati come si usavano prima i Testimonial.
È lo stesso scenario che abbiamo vissuto in advertising verso la fine degli anni ’90, quelli successivi al boom del settore, peccato che erano anche gli anni in cui gli utenti cercavano di fuggire in ogni modo alla pubblicità.
E infatti si è iniziato a usare il termine enshittification (traducibile in italiano con “andare in merda”), che è una parola inventata dal giornalista e romanziere canadese Cory Doctorow lo scorso gennaio nel suo blog.
Cito testualmente dal Post: “Il termine enshittification indica l’insieme di decisioni che porta una piattaforma di successo a diventare progressivamente meno piacevole e utilizzabile per i suoi utenti, fino a entrare in crisi. «Ecco come muoiono le piattaforme» ha scritto Doctorow: «prima trattano bene i loro utenti; poi ne abusano per favorire i loro clienti; infine, abusano dei loro stessi clienti per recuperare tutto il valore per sé stessi. E poi muoiono”.
Questo fenomeno non è sconvolgente per un pubblicitario di lungo corso come me, perché, non so se ne siete consapevoli ma alla gente la pubblicità rompe il cazzo. A noi che siamo creativi pubblicitari piace, io addirittura la amo, ma alla gente rompe il cazzo.
Gli inglesi, che sono più intelligenti ed eleganti di noi, nel passato hanno cercato di farsi perdonare l’invadenza della pubblicità tramite lo humor. Certo, erano avvantaggiati rispetto a noi perché geneticamente hanno il british humor, mentre noi siamo stati educati con le commedie dei Vanzina e il Bagaglino, ma hanno comunque provato a farsi benvolere intrattenendo il pubblico e facendolo ridere. Mentre noi rompiamo solo le palle.
Paradossalmente oggi a molti marketers non interessa cosa il brand dice al cliente, ma piuttosto quante volte gli ripete quel messaggio. Ai tempi delle Repubbliche Marinare a Genova c’era una figura che si chiamava Pittima. La Pittima era un esattore vestito di rosso per non passare inosservato che doveva inseguire e assillare i debitori per tutta la città ripetendo loro: “paghi? quando paghi? paghi domani? e se non domani, quando paghi?”, finché il debitore non cedeva, o per esasperazione o per la vergogna di far vedere alla città che era pieno di debiti.
La maggior parte delle pubblicità sui Social Media oggi sono Pittime: vogliono solo farsi notare e insistono a ripetere: “comprami, comprami!” Una rottura di palle di call to action che non si sopportano più.
E se questo lo dicessi solo io che notoriamente ho un butto carattere, vabbe’, ma la realtà è che ci troviamo di fronte a tre nuovi fenomeni.
Il primo è quello dello scroll infinito, nel senso che si sta ripetendo l’abitudine degli anni ’90: come allora la gente cambiava canale durante la pubblicità, ora le persone scrollano i contenuti sullo smartphone. L’effetto è quello della banner blindness: durante lo scroll il nostro cervello salta inconsciamente i messaggi pubblicitari. Senza neppure accorgersene.
Il secondo è quello della saturazione degli Influencers.
Mike Bongiorno riusciva a promuovere ogni giorno un prodotto diverso in maniera efficace, ma quanta credibilità ha oggi un Influencer che passa da un detergente di igiene intima a un gioiello nel giro di un giorno? Le visualizzazioni (audience) continuano a esserci, ma i risultati? Le vendite?
Il terzo fenomeno è la fuga dai social delle generazioni più giovani.
I boomer continuano a passare tempo su Facebook perché invecchiando diventano sempre più insofferenti e trovano gusto nel litigare fra loro, ma i ragazzi più giovani rifuggono queste dinamiche, temono di esporsi per paura del giudizio degli altri e si stanno rifugiando nelle chat private.
Whatsapp, Telegram, ma non solo. Adam Mosseri di Instagram ha appena dichiarato: (…) “se guardi come gli adolescenti trascorrono il loro tempo su Instagram vedrai che trascorrono più tempo nei DM che nelle Storie e più tempo nelle Storie che nel Feed principale” (…).
In sintesi la Generazione Z preferisce usare le piattaforme come mezzi di messaggistica. E tra di loro sta aumentando l’utilizzo di funzioni che fanno sparire il contenuto dopo la prima visualizzazione.
Il rifiuto dell’utente per la pubblicità è una cosa risaputa dalle piattaforme, i numeri lo stanno dicendo. Inoltre l’Unione Europea è sempre più sensibile alla protezione dei dati dei suoi cittadini (a gennaio ha multato Meta con 390 milioni di euro dopo aver scoperto che aveva illegalmente costretto gli utenti ad accettare annunci personalizzati, mentre a maggio è arrivata un’altra sanzione di 1,2 miliardi di euro). Per tutti questi motivi Meta sta pensando per Facebook e Instagram a una vesione Premium, cioè a pagamento ma senza pubblicità, nel solco del modello dei servizi di streaming online.
Difficile che ci riesca, perché quando una persona è abituata a usufruire di un servizio gratuito difficilmente dopo è disposta a pagarlo. Ma è la dimostrazione che i Social Media sono consapevoli che il vecchio modello di revenue inizia a mostrare i suoi limiti.
Ogni giorno, sui Social Media, un pubblicitario si sveglia e sa che dovrà catturare un utente. Ogni giorno, sui social media, un utente si sveglia e sa che non dovrà farsi catturare dalla pubblicità. È uno scenario che esiste da sempre e che sempre esisterà, almeno fin quando qualcuno non si farà venire in mente un modello alternativo a quello tabellare.
Ma la domanda che mi pongo io è questa: invece di inseguire l’utente come una Pittima non potremmo tornare a realizzare pubblicità più interessanti? Non potremmo tornare a produrre contenuti di qualità? Così belli che l’utente ogni tanto abbia la tentazione di venirseli a cercare? O, almeno, non potremmo iniziare a essere più discreti senza pretendere di invadere la vita della gente in ogni device 24/7 con continue call to action?
Un buon inizio, fose, potrebbe essere quello di tornare a dare più importanza alle interazioni piuttosto che alle visualizzazioni, all’intrattenimento piuttosto che alla frequenza, ma soprattutto alle idee piuttosto che a numeri che il più delle volte non significano niente.
Come sempre analisi precisa e fattuale.
Direi che il in effetti si dovrebbe lasciare la merda per tornare a del buon cioccolato.
Mica per poi darci i premietti tra di noi.
Servirebbe a dare alla pubblicità dei clienti più efficacia e ricordo. Ricordo della marca e del prodotto! Roba totalmente sparita.
Temo che anche le nuove generazioni di marketers siano un po’ assuefatte alla dinamica social, perché anche in TV le campagne ormai si assomigliano un po’ tutte.
Bei tempi quelli che descrivi delle campagne integrate agli albori del Web 2.0. Ne abbiamo creato le dinamiche con grande creatività e ci siamo divertiti un sacco.
Ora è davvero tutto noioso e hai ragione. Sono più le “X” da cliccare in ciò che ci viene proposto da Facebook che i contenuti da leggere.
Il prossimo passo sarà la morte del mezzo, ne sono convinto, ma 10 anni di R.I.P. non glieli toglierà nessuno!
Tutto chiaro e condivisibile, caro Mizio,
Poi il cliente a fine campagna vuole le sue belle metriche pompate perchè il suo competitor ha fatto 1 milione di visualizzazioni sul tubo.. Andrebbe catechizzato anche il cliente, o no?!?
Sono bastati pochi mesi da beta tester di Bluesky, la nuova piattaforma social di microblogging dove si stanno rifugiando sempre più profughi di Twitter, per avere questa banale epifania: quanto erano interessanti i Social Media all’inizio, quando cercavi persone con cui discutere anziché haters con cui litigare.
Perché i Social Media sono completamente diversi rispetto agli esordi, specie dal punto di vista della socialità, e non sono cambiati in meglio, tutt’altro, e cambieranno ancora nei prossimi anni. Questa convinzione personale è confermata dai contenuti che ho letto negli ultimi tempi, come l’articolo di Franz Russo su Startup Italia, la newsletter The Social Roast di Richard Cook o anche questo post sul blog di Swamilee.
Cosa voglio dire? Prendiamo Facebook o Instagram.
All’inizio ti iscrivevi per conversare con gli amici e ritrovare vecchie conoscenze, condividevi con loro pensieri, stati d’animo e fotografie. Poi, giustamente, Meta ha pensato che doveva guadagnarci, ma ha scelto un modello di revenue vecchio come quello della pubblicità tabellare. E le cose sono cambiate
Ricordo bene gli albori del web 2.0 perché per un creativo pubblicitario era un periodo eccitante: per la prima volta potevi pensare a progetti realmente integrati. Ne ricordo alcuni che partivano dalla TV, passavano da Facebook, attraversavano Twitter, facevano una puntata su YouTube e infine atterravano su un mini-sito. Le possibilità erano infinite, il senso di libertà grandioso e l’originalità serviva per catturare l’interesse del navigatore e accompagnarlo in un’esperienza multipiattaforma.
Oggi è impossibile fare progetti del genere, perché il modello tabellare innesca tra le piatttaforme una guerra di tutti contro tutti.
Ma qual è il motivo per cui Meta e gli altri Social Media hanno scelto un modello del genere? Semplice: perché era il più adatto per abbassare la soglia minima d’investimento e catturare anche i piccoli inserzionisti che per la prima volta hanno potuto promuoversi con poche decine di euro ma, soprattutto, perché il modello tabellare è rassicurante per i grandi brand dato che è quello che usano da sempre, e cioè pago e in cambio ottengo visibilità. E bada bene: visibilità, non risultati.
La pubblicità tabellare funziona seguendo una logica do ut des. La stessa che domina da sempre l’adv classico: pago questo spot quanto viene visto, pago questo annuncio quanto viene letto. E come misuri questa equazione? Ovvio, dando per buona l’audience del programma o della testata in cui il contenuto pubblicitario va a posizionarsi.
È evidente che in un modello di pubblicità del genere l’audience ha un ruolo fondamentale, molto più delle interazioni e molto più del gradimento. Di conseguenza i Social Media hanno iniziato a lottare per un aspetto quantitativo come l’audience piuttosto che per uno qualitativo, perché lo scopo è che gli iscritti passino sempre più tempo sulla piattaforma. Questo tema è diventato urgente da quando le piattaforme social si sono moltiplicate e i navigatori hanno preso l’abitudine di passare dall’una all’altra come negli anni ’90 si scanalava con il telecomando .
Facebook è nato nel 2004, YouTube nel 2005, Twitter nel 2007 e Instagram è arrivato solo nel 2010. Ma oggi, oltre a questi Social Media, quanti altri ne può frequentare un essere umano in un giorno?
Cito solo i principali concorrenti: TikTok, LinkedIN, Twitch, Pinterest, Discord… non c’è tempo per tutti, è ovvio, e così la lotta per l’audience è diventata una guerra senza quartiere fatta a colpi di algoritmi.
Perché gli algoritmi sono le armi di questa guerra, i criteri secondo cui una volta sui Social Media vedevi i contenuti pubblicati dai tuoi amici e oggi vedi una sfilza di contenuti sponsorizzati che non hanno senso. Perché con il tempo i Social Media hanno provato a profilarci, ma poi Apple ha introdotto l’App Transparency Framework, una funzionalità di iOS che all’avvio di un’app ci chiede il consenso per il tracciamento sui siti web. Un passo in avanti per la nostra Privacy che ha reso più difficile spiarci e ha fatto crollare l’efficacia delle campagne sui Social Media.
Con la diminuzione dell’efficacia della profilazione, e quindi con l’impossibilità di agire chirurgicamente, le statistiche sull’audience sono diventate ancora più importanti e il tentativo di allungare il tempo medio di ogni singolo utente sulle piattaforme è diventato fondamentale rappresentando uno degli obiettivi principali degli algoritmi.
E uno dei modi per cui è più facile trattenerti è compiacerti.
Ecco perché continui a vedere contenuti che sembri gradire e utenti a cui hai dato like. Questa cosa che a prima vista sembrerebbe giusta, in realtà presenta un limite: se sei un complottista che crede che il Covid sia stato realizzato in laboratori cinesi continuerai a vedere post di gente che dice che nel vaccino ci hanno messo dentro i microchip, mentre se credi agli alieni leggerai solo post di scie chimiche e pubblicità di Raeliani.
Risultato? Finisci dentro una bolla in cui le tue convinzioni si rafforzano e addirittura si radicalizzano, tanto che quando sulla tua bacheca appare il commento di un poveraccio che non la pensa come te ed esprime un dissenso, lo offendi. Lo stesso succede quando ti appare nel Feed un Influencer che non ti sta simpatico. Ecco la genesi degli haters.
Questa bolla autoindotta di convinzioni radicate e di circoli ristetti (l’intelligenza è soprattutto apertura mentale) è amplificata ad arte dagli algoritmi che, oltre a farti vedere solo quello che ti lusinga, ti trattengono sulla piattaforma.
Come in una specie di Truman Show, i Social Media hanno iniziato a penalizzare i link esterni. Prova a pubblicare un post su Facebook con un link a YouTube oppure al tuo blog. Vedrai che risultati penosi, sia come commenti sia come visualizzazioni.
Povertà dei contenuti e ricchezza di haters hanno creato ulteriori conseguenze.
Le persone attive, cioè quelle che pubblicano contenuti originali così come quelle che interagiscono, sono diminuite. Sono aumentati i lurker: gente che scrolla lo smartphone per ore senza interagire, al limite incazzandosi quando un contenuto non risponde ai loro gusti.
La crescita di TikTok non è un caso. A livello mondiale è la sesta piattaforma per numero di users ma è diventata la prima come tempo medio di utilizzo: 31 ore e 30 minuti al mese per utilizzatore, quasi il doppio di Facebook (*dati Digital Report 2023 di We Are Social release di Aprile). TikTok è un rule breaker in quanto se ne frega delle interazioni (sì, ha cuori e commenti, ok, ma il benchmark sono le visualizzazioni) e quindi si sta allontanando sempre di più da quelli che erano i Social Media di un tempo e si sta avvicinando sempre più all’abitudine di fruizione della vecchia TV.
In questo scenario diminuiscono i contenuti di qualità, perché amenoché tu non sia un Creator o un Influencer che fa numeri talmente alti da riuscire a monetizzare, è dura impegnarsi nella creazione di contenuti che rischiano di passare inosservati. Ma se la qualità dei contenuti è diminuita, si è alzata tantissimo la qualità dell’estetica dei post e dei video.
Quello che si è creato, insomma, è il microclima ideale per il grande inserzionista pubblicitario: modello tabellare, numero di canali limitato (Creator), alta qualità estetica irraggiungibile dall’utente medio perché richiede investimenti importanti, Influencer utilizzati come si usavano prima i Testimonial.
È lo stesso scenario che abbiamo vissuto in advertising verso la fine degli anni ’90, quelli successivi al boom del settore, peccato che erano anche gli anni in cui gli utenti cercavano di fuggire in ogni modo alla pubblicità.
E infatti si è iniziato a usare il termine enshittification (traducibile in italiano con “andare in merda”), che è una parola inventata dal giornalista e romanziere canadese Cory Doctorow lo scorso gennaio nel suo blog.
Cito testualmente dal Post: “Il termine enshittification indica l’insieme di decisioni che porta una piattaforma di successo a diventare progressivamente meno piacevole e utilizzabile per i suoi utenti, fino a entrare in crisi. «Ecco come muoiono le piattaforme» ha scritto Doctorow: «prima trattano bene i loro utenti; poi ne abusano per favorire i loro clienti; infine, abusano dei loro stessi clienti per recuperare tutto il valore per sé stessi. E poi muoiono”.
Questo fenomeno non è sconvolgente per un pubblicitario di lungo corso come me, perché, non so se ne siete consapevoli ma alla gente la pubblicità rompe il cazzo. A noi che siamo creativi pubblicitari piace, io addirittura la amo, ma alla gente rompe il cazzo.
Gli inglesi, che sono più intelligenti ed eleganti di noi, nel passato hanno cercato di farsi perdonare l’invadenza della pubblicità tramite lo humor. Certo, erano avvantaggiati rispetto a noi perché geneticamente hanno il british humor, mentre noi siamo stati educati con le commedie dei Vanzina e il Bagaglino, ma hanno comunque provato a farsi benvolere intrattenendo il pubblico e facendolo ridere. Mentre noi rompiamo solo le palle.
Paradossalmente oggi a molti marketers non interessa cosa il brand dice al cliente, ma piuttosto quante volte gli ripete quel messaggio. Ai tempi delle Repubbliche Marinare a Genova c’era una figura che si chiamava Pittima. La Pittima era un esattore vestito di rosso per non passare inosservato che doveva inseguire e assillare i debitori per tutta la città ripetendo loro: “paghi? quando paghi? paghi domani? e se non domani, quando paghi?”, finché il debitore non cedeva, o per esasperazione o per la vergogna di far vedere alla città che era pieno di debiti.
La maggior parte delle pubblicità sui Social Media oggi sono Pittime: vogliono solo farsi notare e insistono a ripetere: “comprami, comprami!” Una rottura di palle di call to action che non si sopportano più.
E se questo lo dicessi solo io che notoriamente ho un butto carattere, vabbe’, ma la realtà è che ci troviamo di fronte a tre nuovi fenomeni.
Il primo è quello dello scroll infinito, nel senso che si sta ripetendo l’abitudine degli anni ’90: come allora la gente cambiava canale durante la pubblicità, ora le persone scrollano i contenuti sullo smartphone. L’effetto è quello della banner blindness: durante lo scroll il nostro cervello salta inconsciamente i messaggi pubblicitari. Senza neppure accorgersene.
Il secondo è quello della saturazione degli Influencers.
Mike Bongiorno riusciva a promuovere ogni giorno un prodotto diverso in maniera efficace, ma quanta credibilità ha oggi un Influencer che passa da un detergente di igiene intima a un gioiello nel giro di un giorno? Le visualizzazioni (audience) continuano a esserci, ma i risultati? Le vendite?
Il terzo fenomeno è la fuga dai social delle generazioni più giovani.
I boomer continuano a passare tempo su Facebook perché invecchiando diventano sempre più insofferenti e trovano gusto nel litigare fra loro, ma i ragazzi più giovani rifuggono queste dinamiche, temono di esporsi per paura del giudizio degli altri e si stanno rifugiando nelle chat private.
Whatsapp, Telegram, ma non solo. Adam Mosseri di Instagram ha appena dichiarato: (…) “se guardi come gli adolescenti trascorrono il loro tempo su Instagram vedrai che trascorrono più tempo nei DM che nelle Storie e più tempo nelle Storie che nel Feed principale” (…).
In sintesi la Generazione Z preferisce usare le piattaforme come mezzi di messaggistica. E tra di loro sta aumentando l’utilizzo di funzioni che fanno sparire il contenuto dopo la prima visualizzazione.
Il rifiuto dell’utente per la pubblicità è una cosa risaputa dalle piattaforme, i numeri lo stanno dicendo. Inoltre l’Unione Europea è sempre più sensibile alla protezione dei dati dei suoi cittadini (a gennaio ha multato Meta con 390 milioni di euro dopo aver scoperto che aveva illegalmente costretto gli utenti ad accettare annunci personalizzati, mentre a maggio è arrivata un’altra sanzione di 1,2 miliardi di euro). Per tutti questi motivi Meta sta pensando per Facebook e Instagram a una vesione Premium, cioè a pagamento ma senza pubblicità, nel solco del modello dei servizi di streaming online.
Difficile che ci riesca, perché quando una persona è abituata a usufruire di un servizio gratuito difficilmente dopo è disposta a pagarlo. Ma è la dimostrazione che i Social Media sono consapevoli che il vecchio modello di revenue inizia a mostrare i suoi limiti.
Ogni giorno, sui Social Media, un pubblicitario si sveglia e sa che dovrà catturare un utente. Ogni giorno, sui social media, un utente si sveglia e sa che non dovrà farsi catturare dalla pubblicità. È uno scenario che esiste da sempre e che sempre esisterà, almeno fin quando qualcuno non si farà venire in mente un modello alternativo a quello tabellare.
Ma la domanda che mi pongo io è questa: invece di inseguire l’utente come una Pittima non potremmo tornare a realizzare pubblicità più interessanti? Non potremmo tornare a produrre contenuti di qualità? Così belli che l’utente ogni tanto abbia la tentazione di venirseli a cercare? O, almeno, non potremmo iniziare a essere più discreti senza pretendere di invadere la vita della gente in ogni device 24/7 con continue call to action?
Un buon inizio, fose, potrebbe essere quello di tornare a dare più importanza alle interazioni piuttosto che alle visualizzazioni, all’intrattenimento piuttosto che alla frequenza, ma soprattutto alle idee piuttosto che a numeri che il più delle volte non significano niente.
Comments (6)
Grazie Mizio, riflessione lucida e molto utile perfino per un apocalittico come me. Figurarsi per uno normale.
Grazie Marco.
Come sempre analisi precisa e fattuale.
Direi che il in effetti si dovrebbe lasciare la merda per tornare a del buon cioccolato.
Mica per poi darci i premietti tra di noi.
Servirebbe a dare alla pubblicità dei clienti più efficacia e ricordo. Ricordo della marca e del prodotto! Roba totalmente sparita.
Temo che anche le nuove generazioni di marketers siano un po’ assuefatte alla dinamica social, perché anche in TV le campagne ormai si assomigliano un po’ tutte.
Bei tempi quelli che descrivi delle campagne integrate agli albori del Web 2.0. Ne abbiamo creato le dinamiche con grande creatività e ci siamo divertiti un sacco.
Ora è davvero tutto noioso e hai ragione. Sono più le “X” da cliccare in ciò che ci viene proposto da Facebook che i contenuti da leggere.
Il prossimo passo sarà la morte del mezzo, ne sono convinto, ma 10 anni di R.I.P. non glieli toglierà nessuno!
Tutto chiaro e condivisibile, caro Mizio,
Poi il cliente a fine campagna vuole le sue belle metriche pompate perchè il suo competitor ha fatto 1 milione di visualizzazioni sul tubo.. Andrebbe catechizzato anche il cliente, o no?!?